di Stefano Pistolini (linkiesta.it, 12 febbraio 2024)
A sentire le canzoni di Toby Keith, la superstar della country music scomparso qualche giorno fa a 62 anni, la parola “America” assume un senso particolare, quasi mitologico, comunque imponente e imbarazzante se confrontato con il racconto della realtà. Keith dal punto di vista musicale era un bravo professionista, uno che si era fatto strada lavorandoci fin da giovanissimo, uno che conosceva a menadito regole e canoni di quel genere particolare che è il country americano, dove essere un innovatore equivale a spostare di pochissimo alcuni dei suoi parametri essenziali – composizione, interpretazione, tematiche.
Il suo modello era Merle Haggard e Keith sapeva perfettamente come si fa, come si scrive e come si propone al consumatore finale, che è un genere di ascoltatore ben definibile. Ma poi nel suo caso era successo qualcosa di insolito che aveva proiettato il suo personaggio in uno scenario diverso: Keith aveva cominciato a riversare nelle proprie canzoni, in modo sempre più esplicito e provocatorio, la sua visione dell’America, della nazione in perenne rischio di contaminazione da parte delle brutture del resto del pianeta, mentre i suoi pezzi continuavano a finire regolarmente al numero uno delle classifiche di genere, con ampi consensi anche in quelle generaliste, trasformandolo in un vero re Mida dell’Oklahoma, lo Stato spudoratamente hillbilly nel quale era nato e che non aveva mai lasciato.
Una copertina di Forbes di qualche anno fa ne parlava come del riccone da 500 milioni di dollari, capace di accumulare con la musica più quattrini di Jay-Z e di Beyoncé, e da allora le cose per lui hanno sempre marciato commercialmente nel modo giusto. Ma intanto il suo personaggio diventava sempre più controverso, allorché pubblicava titoli come Made in America, I Wanna Talk About Me e Beer for my Horses, che erano florilegi di tipica ironia da country singer – scettica, macho, sottilmente sciovinista – condita di battute, boutade e tanta spavalderia. Cosette come «Sarà fatta giustizia e la battaglia infurierà / Questo grosso cane combatterà quando scuoterai la sua gabbia / E ti pentirai di aver incasinato gli States / Perché ti metteremo uno stivale nel culo. È il modo americano». Tanto per fare un esempio, che poi è la strofa conclusiva di Courtesy of the Red, White and Blue (The Angry American), l’inno dell’americano furibondo, arrivato in cima alle classifiche e scritta in risposta agli attacchi dell’11 settembre, in pieno delirio patriottico e bellicista.
Eppure Keith, interrogato al riguardo, si definiva politicamente un democratico conservatore, comunque interessato esclusivamente alla qualità delle figure pubbliche che decideva di sostenere e ben lontano da qualsiasi definizione e inquadramento partitico. Insomma puro individualismo Midwest, per un uomo cresciuto lavorando nei rodei e nei giacimenti petroliferi e che aveva avuto perfino una discreta carriera da giocatore nel football semiprofessionistico. Un perfetto stereotipo che, nonostante a suo tempo avesse espresso stima per l’operato di Barack Obama nella sua presidenza, adesso incarnava il perfetto mediatore del messaggio elettorale di Donald Trump allorché si rivolge alla classe operaia bianca: quello slogan Maga, Make America Great Again, rifacciamo grande l’America, trovava in lui l’icona perfetta, condita dai suoi gorgheggi e da quello spirito indipendentista che lo stesso Trump non ha mai negato ai suoi supporter, chiedendo loro di sostenere lui, ben prima d’interessarsi alle sorti del partito repubblicano.
Certo, in un testa a testa con la Taylor Swift che sta riflettendo se accettare di scendere in campo per dare una mano alla rielezione di Biden, Toby Keith avrebbe avuto una brutta gatta da pelare. Ma quelli veri del country alla fine sanno come si fa, riescono a cogliere lo spiraglio giusto per farsi amare e poi anche Taylor musicalmente ha bazzicato a lungo su quelle sponde. Sarebbe stato un faccia a faccia tra due diverse forme di patriottismo, in fondo. Ma Keith non ce l’ha fatta, il cancro l’ha ucciso, e se n’è andato appoggiandosi ai principi della teologia della liberazione di cui era fervente seguace, da bravo loner dell’Oklahoma, convinto che Dio si schieri sempre dalla parte dei peccatori e degli emarginati. Ciò significa che Trump e quei colletti blu con la guardia da boxe perennemente alzata dovranno trovarsi un altro filosofo “ignorante” cui affidare la messa in musica del loro lifestyle e delle loro convinzioni. Da ascoltare nell’autoradio su quelle autostrade che pretendono di essere perennemente blu.