di Marta Allevato (agi.it, 30 gennaio 2025)
Diventare famosa nel proprio Paese anche se il film in cui reciti è vietato dalle autorità e tu non sei neppure un’attrice professionista. È successo in Iran a Lili Farhadpour, 64 anni, giornalista e attivista prestata al cinema, e protagonista del film Il mio giardino persiano di Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha, in Italia con Academy Two.
«Non posso più camminare per strada perché mi fermano, mi abbracciano, mi dicono che in me hanno visto sé stessi o la loro mamma, mi ringraziano e neppure so perché» ha raccontato la stessa Farhadpour, in collegamento da Teheran, dopo la proiezione del film – presentato in anteprima mondiale alla scorsa Berlinale – al cinema Quattro Fontane di Roma. Agli occhi di un occidentale, la trama di Il mio giardino persiano non ha nulla di sovversivo: è una commedia intima e delicata in cui la vedova 70enne Mahin (interpretata dalla Farhadpour), dopo anni di solitudine, decide di passare all’azione e mette gli occhi sul tassista scapolo Faramarz (Esmaeel Mehrabi).
I due passano una serata nel giardino della donna a Teheran, mangiano, chiacchierano, bevono vino e ballano, celebrando il riaccendersi di sensazioni che pensavano sepolte. Nonostante la sua semplicità, il film supera molte delle diverse linee rosse fissate dalla Repubblica islamica: una donna iraniana, Farahadpour appunto, beve alcolici e balla con un uomo che non è suo marito, e appare in più scene senza hijab, il velo obbligatorio per tutte.
A Moghaddam e Sanaeeha – una coppia anche nella vita – sono stati ritirati i passaporti e da mesi vedono il film riscuotere successo ovunque all’estero, rimanendo però sempre bloccati a Teheran. I due registi, gli attori e i montatori sono al momento sotto processo, in attesa di giudizio. Sono accusati di propaganda contro il regime, diffusione di corruzione morale e produzione di un film osceno.
Maryam Moghaddam – collegata anche lei da Teheran col marito e co-regista – ha spiegato che l’obiettivo del film «era solo mostrare la vera vita degli iraniani dentro le loro case e non le bugie che il regime da 45 anni costringe a raccontare anche al cinema». «Quando mi hanno proposto questa parte l’ho preso come un gesto di attivismo», ha proseguito Lili Farhadpour, che era presente alla Berlinale nel febbraio scorso, quando ai registi era stato vietato di lasciare l’Iran.
«A Berlino guardavo il film in sala e pensavo a come avrei dovuto rispondere a chi mi avesse interrogato al mio ritorno», conclude l’attrice-attivista. «Poi ho visto che iniziavano a circolare spezzoni su Instagram e ho avuto paura della reazione del pubblico iraniano. Infine, il film è uscito clandestinamente dal Regno Unito e ora crediamo che l’abbia visto il 50% delle persone in Iran. Sono convinta che il motivo per cui siamo ancora liberi è perché le autorità sanno che questo film è stato visto e amato da milioni di iraniani».