
di Cesare Martinetti (huffingtonpost.it, 25 marzo 2025)
Eroe della Resistenza, salvatore di bambini ebrei, ma soprattutto santo patrono dei senza casa nell’orribile e durissima vita delle baraccopoli francesi negli anni Cinquanta e Sessanta. Frate Cappuccino, un’icona, il portatore di un Vangelo semplice e concreto, rappresentato da quel viso scavato, la barba rada, lo sguardo umile che trasmette forza, una resilienza – si dice oggi – incrollabile. Ma per Henri Antoine Grouès, conosciuto nel mondo come l’Abbé Pierre, la favola evangelica è finita.
Pochi giorni fa l’associazione che portava il suo nome e il suo viso, ha cancellato l’uno e l’altro. Da “Fondation Abbé Pierre” a “Fondation pour le Logement”, semplicemente. Il fondatore del Movimento Emmaus è sceso dall’altare ideale della nazione: militante e benefattore, sì, ma anche vorace e impunito predatore sessuale. Diciotto anni dopo la morte, avvenuta nel 2007 a novantacinque anni, in pochi mesi la sua immagine si è rovesciata, da angelo a demone, cinquant’anni e più di instancabile dedizione per i poveri e contemporaneamente di manipolazioni sessuali, opere di bene ed opere di pene, inestricabilmente intrecciate, vere le une e vere altre. Da luglio a oggi è stato un bombardamento di rivelazioni e confessioni.
Cinquantasette persone hanno testimoniato con nome e cognome, molte altre lo hanno fatto diversamente, le ultime a gennaio, tra loro anche membri della famiglia di Henri Grouès. La parola incesto non è stata evocata a caso nell’inchiesta. Maschi e soprattutto femmine, maggiorenni e minorenni. Avvicinarsi a lui, per una donna, voleva dire esporsi come minimo a una palpata del seno. Ma spesso il buon Abbé arrivava fino in fondo, senza negarsi la pratica feticistica di una foto Polaroid con la sua conquista. E tutto sigillato dalla minaccia ben poco evangelica, così raccontata da una delle sue vittime: «Alla fine mi ha detto che lui era molto potente, che la gente lo amava e che non avrei mai dovuto dire a nessuno quello che era successo, che tanto nessuno mi avrebbe creduto e anzi avrei avuto gravi conseguenze».
Nella realtà Henri Grouès non è mai stato “santo” secondo la Chiesa, che ben conosceva le sue tendenze, ma lo era nella narrazione nazionale e gli archivi dell’episcopato hanno rivelato voci e sospetti sempre coperti, addirittura fin dagli anni Quaranta, quando l’uomo nato nel 1912 incarnava la figura del militante missionario e umanitario nel pieno delle forze. Quando lo scandalo è scoppiato, si è subito sparso il solito “si sapeva” ma naturalmente si taceva. Anche Papa Francesco, interpellato da un giornalista di Le Monde sul volo di ritorno dal suo periplo in Asia il 13 settembre, aveva confermato: «Non so cosa si sapesse in Vaticano perché io non c’ero, ma certamente alla sua morte si sapeva. Ha fatto del bene, ma è stato anche un peccatore».
Dalle prime rivelazioni pubbliche di luglio, la Fondazione Emmaus ha ordinato un’inchiesta indipendente che ha già, a sua volta, pubblicato tre rapporti, a ondate inarrestabili di testimonianze sempre più imbarazzanti. L’ordine dei Cappuccini ha lodevolmente aperto il suo archivio ai giornalisti. Henri Grouès aveva vestito la tonaca il 21 novembre 1931, a 19 anni, dopo il noviziato compiuto a Notre-Dame de Bon Secours, a Saint-Étienne. Nelle sue lettere emergeva allora non tanto il futuro apostolo dei poveri, quanto «un uomo tormentato dalla carne fin dall’infanzia e mai stato capace di canalizzare le sue pulsioni». Nel questionario riempito all’inizio del noviziato si definisce «ardente, indipendente, immaginativo» ed esprime la volontà di diventare «santo alla gloria di Dio».
Quinto di otto figli, Henri Grouès era nato il 5 agosto 1912 a Lione in una famiglia dell’alta borghesia cattolica molto vicina ai Gesuiti. Il padre Antoine era un ricco commerciante di tessuti, la madre Eulalie era anche lei figlia di un notabile della provincia. La coppia aveva impartito ai figli un’educazione religiosa molto stretta. Le tenerezze – ha raccontato lui – in casa erano considerate «indecenti»: mai un abbraccio, mai una carezza. Ogni sera tutta la famiglia si inginocchiava e il padre pronunciava questa preghiera: «Signore, noi sappiamo che non siamo nulla e che non sappiamo nulla». In chiesa ogni membro della famiglia aveva l’inginocchiatoio a suo nome.
In questo quadro famigliare, la scelta di Henri di farsi prete era vista con fierezza; quella di diventare Cappuccino, con disprezzo. Il padre l’avrebbe voluto Gesuita o Domenicano, ordini “colti” e non “poveri” come i francescani, costretti anche all’umiliazione della questua quotidiana nelle strade dei villaggi di campagna. In più, la vita conventuale era terribile: i frati erano costretti a dormire vestiti su un tavolaccio, notti segnate da risvegli continui per le preghiere, la regola di una “disciplina” da compiere tre volte la settimana che comportava l’autofustigazione con frustino su polpacci, natiche e schiena. Tutto questo è cambiato dopo il Concilio Vaticano del 1962.
Ma rileggendo la vicenda di Henri Gruès al suo tempo, intervistato da Le Monde, padre Daniel Painblanc, oggi provinciale dei Cappuccini a Parigi, ammette che Henri Grouès aveva «un carattere incompatibile con la vita conventuale, non avrebbe mai dovuto diventare Cappuccino, che comporta una lotta continua per reprimere pulsioni e sentimenti». Questo era il giovane frate. Dopo di che la sua vita è stata come un romanzo. Combattente clandestino della Resistenza, in Francia, in Svizzera, in Spagna. Vicino al generale de Gaulle in Algeria. Ufficiale, cappellano militare, eletto deputato subito dopo la guerra nel Movimento Repubblicano che poi lascia per schierarsi sempre più a sinistra. Pluripremiato dalla République.
Un percorso esistenziale tormentato e anche un ricovero in ospedale psichiatrico. Ma, intanto, inarrestabile costruttore di pace. Negli anni Cinquanta fonda il movimento di Emmaus: il nome è tratto dall’unica apparizione ai discepoli di Gesù resuscitato, secondo il Vangelo di Luca. Un movimento per i più poveri, i senza casa e senza nulla nella Francia di anni passati alla Storia come “glorieuses” per il boom che trasformò il Paese, come in Italia. Sergio Zavoli, che l’aveva seguito e raccontato, lo aveva soprannominato «monsignor spazzatura» per la sua capacità di raccattare i rifiuti dell’umanità.
L’Abbé fu capace di sollevare grandi mobilitazioni nazionali, raccolte di fondi destinati ai suoi senza casa invocando l’«insurrezione della bontà». Zavoli ha raccontato in un reportage di aver assistito alla seguente scena: il poliziotto francese che in un campo di rifugiati chiede insistentemente i documenti a una famiglia di immigrati che nemmeno capisce la lingua, fino a quando interviene l’Abbé Pierre e intima all’ufficiale «scrivi che si chiamano Giuseppe, Maria e il bambino Gesù. Garantisco io”. Lo spirito evangelico permeava Henri Grouès fino all’auto santificazione. Ha detto una testimone: «Era una personaggio mitico, si credeva fuori dal mondo comune, al di sopra delle leggi degli uomini».
Ora tutto questo si è sbriciolato nella vergogna di decine di accuse, tardive ma incontestabili. La Chiesa cattolica francese, già pesantemente colpita dall’inchiesta indipendente che nel 2021 ha rivelato oltre duecentomila casi di pedofilia tra i sacerdoti, offre un silenzioso supporto alle vittime. Agli eredi di Emmaus, tuttora impegnati nella missione di sostegno ai senza casa, avendo subito un crollo di donazioni dell’ordine del trenta per cento negli ultimi mesi, non rimaneva che cancellare dal brand il volto adesso imbarazzante del santo stupratore. «Un’operazione di marketing», ha candidamente confessato Christophe Robert, delegato generale della Fondazione. I santi passano, i poveri restano.