Il linguaggio di Trump

Ph. David Ramos / Getty Images

(linkiesta.it, 22 ottobre 2024)

Le parole danno forma al pensiero, influenzano la conoscenza e il modo di vedere, quindi capire, il mondo. Vale in tutti i contesti, da quelli più intimi e ristretti ai discorsi pubblici. Quando a parlare davanti a una platea sono attori, atleti, artisti di qualsiasi tipo, le parole hanno grande risonanza e un certo peso nell’opinione pubblica. Se a parlare sono personaggi politici, a maggior ragione, il vocabolario diventa uno strumento potentissimo, da maneggiare con cura.

Oppure lo si può brandire come una clava, come sta facendo Donald Trump in campagna elettorale, mostrando tutte le possibili degenerazioni di un uso scriteriato e brutale della parola. Da circa un anno, il candidato Repubblicano Donald Trump si riferisce ai suoi rivali politici con il termine “vermin”, che indica parassiti, insetti e altri animali fastidiosi e, peggio, nocivi per l’uomo. «Vi prometto che estirperò i comunisti, i marxisti, i fascisti e i teppisti della sinistra radicale che vivono come parassiti entro i confini del nostro Paese», aveva detto già un anno fa in New Hampshire.

“Vermin” non è solo una parola di cattivo gusto, è un riferimento storico ben preciso: il termine era usato in politica già negli anni Trenta e Quaranta del Novecento, e chi lo usava erano soprattutto i dittatori dell’epoca. Un’assonanza non certo causale, quella di Trump con le figure più deprecabili del secolo scorso, sottolineata da Anne Applebaum in un articolo pubblicato sull’Atlantic. «Adolf Hitler usava spesso questo tipo di termini», scrive. «Nel 1938 elogiò i suoi compatrioti che avevano aiutato a “ripulire la Germania da tutti quei parassiti che bevevano al pozzo della disperazione della Patria e del Popolo”». E nel 1941, nella Varsavia occupata, un manifesto mostrava il disegno di un pidocchio con una caricatura di un volto ebreo e lo slogan: «Gli ebrei sono pidocchi: causano malattie».

Un modo facile, immediato e brutale per dire che i tedeschi, al contrario, erano quelli puliti, puri, sani e privi di parassiti. Trump non è ancora così esplicito, ma in ogni comizio, in ogni intervista, in ogni dichiarazione dimostra che il playbook da cui prende spunto è lo stesso. Anzi, Trump non pesca solo dalla retorica hitleriana. Qualche giorno fa, durante un comizio, sul ledwall alle spalle di Trump si è illuminata una scritta «Trump aveva ragione su tutto». È una citazione di Benito Mussolini e del suo «Mussolini ha sempre ragione».

Ma Stalin usava un linguaggio simile più o meno nello stesso periodo, nota la Applebaum. Chiamava i suoi oppositori «nemici del popolo», sottintendendo che non erano cittadini e che non godevano di alcun diritto. Li descriveva come parassiti, inquinamento, sporcizia che dovevano essere «sottoposti a purificazione continua», e spronava tutti i comunisti a usare un linguaggio simile. «Nei miei archivi ho gli appunti di un incontro del 1955 dei leader della Stasi, la polizia segreta della Germania dell’Est, durante il quale uno di loro invocò una lotta contro le “attività dei parassiti” (c’è, inevitabilmente, una parola tedesca per questo: Schädlingstätigkeiten), con cui intendeva arrivare all’epurazione e all’arresto dei critici del regime. In questa stessa epoca, la Stasi allontanò con la forza le persone sospette dal confine con la Germania Ovest, un progetto soprannominato “Operazione Parassiti”», si legge sull’Atlantic.

Fuori dall’Europa altri dittatori facevano lo stesso, usavano la retorica per sminuire, ridicolizzare, deumanizzare i loro oppositori. Lo faceva Mao Zedong, lo faceva Pol Pot. Mondi distanti, autocrati con origini e tradizioni diverse, eppure il linguaggio si somiglia. «Se associ i tuoi avversari a malattie, infermità e sangue avvelenato, se li disumanizzi come insetti o animali, se parli di schiacciarli o purificarli come se fossero parassiti o batteri, allora puoi molto più facilmente arrestarli, privarli dei diritti, escluderli o persino ucciderli. Se sono parassiti, non sono umani. Se sono parassiti, non possono godere della libertà di parola o di libertà di alcun tipo. E se li schiacci, non sarai ritenuto responsabile», scrive la Applebaum.

Trump non ha mai fatto mistero delle sue aspirazioni dittatoriali, non ha mai nascosto l’apprezzamento per leader criminali e brutali, non ha mai rinunciato alla demagogia e al populismo per incendiare il dibattito pubblico. Non è stato Trump a trasformare il partito Repubblicano, la creatura di Abraham Lincoln o Theodore Roosevelt, nella mostruosità illiberale di oggi, come spiega anche Robert Kagan nel suo libro Insurrezione (pubblicato da Linkiesta Books), ma di certo ha dato un’accelerazione a una degenerazione già in atto. Prima di lui, neanche i politici più razzisti e antiliberali osavano tanto con le parole, non in campagna elettorale. C’era una linea rossa, una linea della decenza, che nessuno poteva permettersi di superare.

«Nella campagna del 2024, quella linea è stata superata», scrive la Applebaum. È vero infatti che Trump non fa distinzione tra immigrati illegali e immigrati legali, tra cui sua moglie e la sua defunta ex moglie, dice che gli immigrati «stanno avvelenando il sangue del nostro Paese», li chiama «assassini a sangue freddo» e dice che «non sono umani, sono animali». E poi si proietta in avanti, alle misure restrittive, alla coercizione: «Dovrebbero essere in custodia, se necessario, della Guardia Nazionale, o se davvero necessario, dell’esercito».

Non si può sottovalutare il linguaggio di Trump, non si può pensare che dica certe cose per ingenuità o ignoranza. O, almeno, non solo per questo. «Trump capisce quale epoca e che tipo di politica evoca questo linguaggio», avverte la Applebaum nel suo articolo. «Il suo discorso sulla deportazione di massa è altrettanto calcolato. Quando suggerisce che avrebbe preso di mira sia gli immigrati legali che quelli illegali, o che avrebbe usato l’esercito arbitrariamente contro i cittadini statunitensi, lo fa sapendo che le passate dittature hanno usato pubbliche manifestazioni di violenza per costruire il loro sostegno popolare. Invocando la violenza di massa, accenna alla sua ammirazione per queste dittature, ma dimostra anche disprezzo per lo Stato di diritto e prepara i suoi seguaci ad accettare l’idea che il suo regime potrebbe, come i suoi predecessori, infrangere la legge impunemente».

Il linguaggio di Trump è inedito per la politica americana, almeno per una campagna presidenziale dell’epoca moderna. È una prima volta e non è facile capire che tipo di effetto produrrà il prossimo 5 novembre, quando gli elettori statunitensi andranno a votare. È possibile che la popolazione non abbia gli anticorpi per una cosa del genere.

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