“Il grande Gatsby” compie cento anni ma parla ancora di noi

di Adalgisa Marrocco (huffingtonpost.it, 9 aprile 2025)

«E mentre meditavo sull’antico mondo sconosciuto, pensai allo stupore di Gatsby la prima volta che individuò la luce verde all’estremità del molo di Daisy. Aveva fatto molta strada per giungere a questo prato azzurro e il suo sogno doveva essergli sembrato così vicino da non poter più sfuggire. Non sapeva che il sogno era già alle sue spalle, in quella vasta oscurità dietro la città dove i campi oscuri della repubblica si stendevano nella notte».

Il 10 aprile 2025 Il grande Gatsby compie cent’anni. Eppure, il romanzo di Francis Scott Fitzgerald non invecchia. Al contrario: decennio dopo decennio, sembra acquistare risonanza, come se l’America – e, più in generale, l’Occidente – si riconoscesse ogni giorno di più nei suoi simboli, nei suoi sogni infranti, nei suoi protagonisti abbaglianti e tragici.

«Confondere l’impresa materiale con il successo morale». Così la critica Sarah Churchwell riassume, nella prefazione all’edizione del centenario, l’equivoco al cuore del romanzo. Un fraintendimento che suona sorprendentemente attuale, in un tempo in cui denaro, visibilità e status vengono spesso scambiati per segni di virtù.

Non sorprende allora che il libro sia diventato spunto per dibattiti più vasti. Ai tempi dell’America di Donald Trump, l’espressione “careless people” – ripresa direttamente dal romanzo – è tornata in circolazione sui social e sui giornali, a indicare una classe dirigente percepita come irresponsabile. C’è persino chi ha paragonato Trump al villain Tom Buchanan. Secondo The Atlantic è come se il personaggio si fosse incarnato in una versione ancora più rumorosa, sgargiante, cinica.

Paralleli trumpiani a parte, Il grande Gatsby – ambientato nell’America dei ruggenti anni Venti – racconta un’epoca febbrile, segnata dall’apogeo del jazz, dalla crescita economica, dal consumismo di massa e dalla trasgressione. È in questo mondo scintillante e frenetico che si muove Jay Gatsby, milionario riservato e misterioso, che dietro una facciata di sfarzo nasconde un’ossessione profonda. Nato come James Gatz da una famiglia di umili contadini del North Dakota, Gatsby si reinventa completamente.

Costruisce una fortuna, acquista una villa, organizza feste leggendarie, ma tutto questo ha un solo scopo: riconquistare Daisy, l’amore perduto, simbolo del passato e di tutto ciò che ha sempre sognato. Più che ambizione, la sua è una fede incrollabile nel potere di riscrivere la realtà, correggere il tempo, riplasmare la memoria. Nonostante la ricchezza, Gatsby resta un intruso tra i “vecchi ricchi” in mezzo ai quali si muove: un parvenu che l’élite osserva con disprezzo. L’illusione di poter colmare quella distanza lo condurrà alla rovina.

Nel sogno del protagonista, Fitzgerald intuisce la fisionomia degli Stati Uniti. Il romanzo, infatti, non parla solo di un uomo, ma di un intero Paese che si racconta come terra delle seconde possibilità e che invece si rivela minato da barriere invisibili: di censo, di razza, di appartenenza. Il grande Gatsby è un’elegia del Sogno Americano, che prima incanta e poi abbandona con crudeltà.

A dispetto della sua forza sempiterna, il romanzo fu un fallimento al momento dell’uscita. Meno di 20mila copie vendute, nessun clamore, poca attenzione. Fitzgerald non si riprese mai davvero dal flop: morì di infarto nel 1940, a 44 anni, in povertà, convinto di essere stato dimenticato. L’ultimo assegno per i diritti d’autore ammontava a 13 dollari.

La riscoperta del suo capolavoro arrivò solo nel dopoguerra. L’amico Edmund Wilson s’impegnò a promuoverne l’opera, mentre l’esercito americano ne distribuì 150mila copie ai soldati. In breve tempo, Il grande Gatsby entrò nei programmi scolastici e si affermò come caposaldo della letteratura americana. Gli adattamenti cinematografici – dal classico degli anni Settanta con Robert Redford alla versione “barocca” di Baz Luhrmann con Leonardo DiCaprio – lo hanno consacrato nell’immaginario comune.

E così ci parla, ancora, sempre. Di desideri e disuguaglianze, di amore e illusione, dell’America e di noi. Parla del presente e, forse, anche del futuro. Perché, come scrive Fitzgerald in una delle frasi finali più celebri della letteratura americana, «continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato».

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