di Fulvio Abbate (huffingtonpost.it, 20 giugno 2019)
Diversamente dal proverbiale e pienamente cinematografico “giorno della marmotta”, non per nulla perfidamente citato da uno dei diretti interessati, l’assai vivace Carlo Calenda, nell’occasione offerta dalla cronaca, tra i protagonisti dell’intera nostra vicenda, quest’altra festa ancora, nonostante la memoria delle delizie microstoriche sia sempre più labile, da chiunque verrà forse ricordata come il Giorno della Maglietta, se non addirittura delle magliette, assodato il moltiplicarsi dell’articolo.Poco importa se t-shirt o piuttosto polo, indumento, quest’ultimo, che andrebbe innanzitutto riferito alla pratica tennistica o magari, che so, a certo cerimoniale da clubino, il golf annodato sulle spalle, come già Andrea Gora ne Il sorpasso o Berlusconi a passeggio per Poltu Quatu. Adesso però, prima di buttarci a capofitto carpiato nel vortice delle conclusioni mai affrettate, proviamo a individuare e discernere la sostanza dei singoli fatti, muovendo dai singoli capi d’abbigliamento, magari con occhio da grossista che si diletti di semiologia, cioè la scienza dei significati.
Da un lato, proprio ragionando di magliette, c’è la pessima vicenda squadristica che mostra i fascisti di CasaPound e Blocco Studentesco, cioè il vivaio studentesco dell’organizzazione, che aggrediscono con puntualità sistematica i “ragazzi” del Cinema America di piazza San Cosimato. Ciò avviene nel cuore notturno dello struscio stanziale romano di Trastevere, diciamo pure, “alternativo”, intimando loro di togliersela, “quella” maglietta, in quanto segno – e qui il grossista cede il passo al semiologo – esplicito di “antifascismo”, se non addirittura militante comunque attivo e dichiarato. Se poi davvero vogliamo ulteriormente indagare i cardini linguistici di questa azione delinquenziale partendo dal lessico della subcultura nera – propria di chi trae piacere ludico nella “cinghia mattanza”, cioè una disfida del tutto contro tutti, fascio contro fascio, a colpi di cintura, possibilmente dal verso della fibbia, posto che assai meno immaginiamo questi soggetti davanti alla proiezione all’aperto di Io ballo da sola di Bertolucci – c’è da essere certi che ai loro occhi si trattasse di “zecche”. Bilancio: una duplice aggressione, due distinti episodi sui quali già indaga la Digos insieme al commissariato stesso di Trastevere; rassicura tuttavia che i responsabili sembrano essere stati individuati e denunciati, o almeno in parte.
Restando in tema di magliette o piuttosto di simboli propri di uno status, cosiddetto, affluente, chi scrive ricorda l’adagio pressoché continuo che veniva un tempo riservato ai “comunisti”, responsabili, fra molto altro, d’avere un segretario di partito, tale Berlinguer, addirittura “proprietario di un’intera isola in Sardegna” (sic). Dunque, t-shirt o altro indumento non meno smart, in quanto a lussi prontamente rinfacciati dalla teppa virtuosa al “radical chic”, molti di noi sono in qualche modo vaccinati rispetto all’occorrenza, avendo vissuto già ogni genere di processo in quanto “compagni”, dediti impropriamente a ogni genere di piaceri amorali nonostante l’appello all’uguaglianza, quasi assimilati alle vergognose manifestazioni di spreco immorale di un Sardanapalo, così come lo ritrae Delacroix tra ori e broccati, la citazione è qui d’obbligo, posta l’accusa di indegnità.
Assodato che l’aggressione di Trastevere ha ben altro peso specifico, riflettiamo adesso sull’altro caso che innalza tuttavia, non meno paradigmaticamente, un indumento per definizione casual sebbene destinato a “fare status”, a dare orgoglio da Bar del Tennis, all’ombra delle statue dello Stadio dei Marmi, un immaginario sovente rimpianto negli stessi manifesti di CasaPound, pensa. Bene, posto che Carlo Calenda appare davvero estraneo a ogni possibile professione di “comunismo”, risulta davvero bizzarro che l’uomo, il politico, il “signorino”, il figlio di ottima famiglia, la spina nel fianco destro del Pd di Zingaretti abbia dovuto giustificare le proprie Lacoste. Di colore blu, tinta presumibilmente attribuita dai suoi detrattori, che so, all’enclave residenziale più esclusiva dei Parioli, tra via dei Tre Orologi e via delle Tre Madonne, pochi passi da dove ebbe a schiantarsi la Ford Thunderbird color lilla di Fred Buscaglione.
Dunque l’obiezione sull’uso di una polo blu da Panatta-Bertolucci-Barazzutti, sia pure in un tweet, almeno per lui, Calenda, appare davvero spuntata, chiarito che si tratti di una accusa prontamente da catalogare sotto la voce dell’attacco alle “élite”, e non ci sembra che agli occhi del nostro questa parola possa risultare oscena. Così almeno in un Paese, l’Italia, la cui piccola borghesia ha costruito il proprio orgoglio da struscio soprattutto sulle griffe, sulle etichette, sulle pecette, perfino sugli adesivi, possibilmente ben visibili, poco importa se tutto questo riferito a roba taroccata o garantita originale. Calenda, bontà sua, Calenda, cui non manca la verve da aperitivo a piazzale delle Muse, ha replicato a latte ormai versato: «Scusate per evitare la caduta dell’Occidente sul tema estremamente divisivo #Lacoste segnalo che ne ho 4 (due regalate dalla mia mamma e due comprate da me) tutte blu perché pare sfinino. Ma soprattutto compro i boxer da Schostal. Dunque sono definitivamente un plutocrate arido». Il riferimento alla ditta che gli fornisce i boxer è forse un dettaglio che i non romani intuiranno a fatica, si sappia tuttavia che la sua insegna al neon verde, nell’Urbe, dal tempo in cui svettava in via del Corso, è simbolo di indumenti intimi e perfino di pigiami, perché no, di seta, una ditta prestigiosa già colpita durante le vergognose leggi razziali; tra i clienti, sia detto, ha potuto vantare Luigi Pirandello. Quanto poi a quel «dalla mia mamma» serve a testimoniare che anche la borghesia romana ha, sì, un cuore, un edipo, e trova perfino il tempo di mettersi in fila davanti all’uscio di “Davide Cenci” a Campo Marzio, altro luogo non meno paradigmatico d’acquisti per il generone cittadino.
S’intende che dietro lo stigma del giorno delle magliette si fa strada, qualora non fosse ancora chiaro, l’antica concezione maoista dove “le campagne è bene che cingano d’assedio le città”, un concetto, nel nostro caso, a ben vedere assimilato perfino da CasaPound, dove appunto la periferia punta un dito pronto a farsi pugno o magari direttamente testata contro i residenti del centro, i “fighetti”, ritenendo così di rieducarli, insegnando loro le aste, se non dell’uguaglianza, comunque della gerarchia, un dispositivo subculturale che negli ultimi mesi figura perfino in ogni pubblica dichiarazione del ministro degli Interni Salvini. Questi, infatti, con insistenza verbale da Orso Yoghi, mai smette di ricordare a tutti noi che “la pacchia è finita”, soprattutto per i “radical chic” e per gli “intellettualoni”; c’è da immaginare che l’attività cinematografica non sia esclusa dal bando. Tornando invece alle manifestazioni di solidarietà per il Cinema America, c’è da sperare che l’altra sera il regista Marco Bellocchio, già militante negli anni Sessanta proprio di un gruppo maoista, “Servire il popolo”, presentando proprio in piazza San Cosimato Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, abbia ricordato che forse l’idea presunta palingenetica dell’assedio dei palazzi del centro da parte del contado custodiva qualcosa di orrendamente ottuso, perfino masochistico a giudicare dagli esiti finali.
Su tutto, ora che l’orrore è davvero compiuto in ogni sua taglia, ben oltre l’XXXL, resta però la certezza di una nuova ricorrenza segnata nel calendario delle festività sempre meno informali, il giorno della maglietta, appunto, dove, come semiologia prescrive, sembrano distinguersi, nell’ordine, ora l’ordinario casual divenuto per forza di cose militante ora la polo di un ex ministro già visto nei panni con annesso panierino di Enrico, protagonista di Cuore nello sceneggiato realizzato a suo tempo da nonno Luigi Comencini, ora infine quegli altri, capelli rasati dal solito Kociss, loro che nel sicuro giorno del giudizio universale, quando anche la semiologia presenterà il conto, giungeranno al cospetto di Roland Barthes, lì ad aspettarli severo ai piedi del suo trono, e loro nudi con soltanto una cinghia in mano. Che tristezza, i fasci.