(ilpost.it, 27 dicembre 2021)
Qualche settimana fa, la giornalista di Repubblica Annalisa Cuzzocrea (che nel frattempo è passata alla Stampa) è stata attaccata dai sostenitori di Fratelli d’Italia per aver specificato che la leader del partito, Giorgia Meloni, fosse «interamente vestita di nero» durante una seduta parlamentare: con quella che ai suoi contestatori era sembrata una sarcastica allusione alle contiguità del partito con la storia fascista. Cuzzocrea aveva risposto che non ci fosse «alcun retropensiero» in quello che aveva scritto e che si trattasse di «un semplice dettaglio di cronaca, come può essere quello del dress code di un politico o di chiunque altro». Il mese scorso, due studenti di un liceo milanese che indossavano la gonna sono stati invitati dal loro professore di Storia a uscire dall’aula.
La giornalista sportiva Greta Beccaglia, in una delle sue prime interviste dopo la molestia subita in diretta tv da un tifoso, ha parlato dei suoi jeans attillati e di come siano stati usati da molti commentatori «come scusante a quel tipo di molestia». Per parecchio tempo, poi, si è parlato dell’abito con lo slogan “Tax the rich”, tassate i ricchi, indossato dalla deputata Democratica Alexandria Ocasio-Cortez al Met Gala dello scorso settembre. E sono stati scritti interi articoli sul rapporto di alcune poetesse e scrittrici con la moda e i vestiti che scelgono di indossare. Questi casi sono molto diversi tra loro, ma tutti hanno a che fare con i vestiti che le persone indossano in contesti o visibilità pubbliche, con il loro significato e con l’attenzione che possono ricevere: legittimamente, in molti casi; oppure no, in molti altri.
Vestirsi non è mai neutro
Il “come ci si veste” non è una cosa neutra. I codici estetici e l’uso dell’abbigliamento hanno una storia, una geografia e una loro semiotica. Hanno avuto un ruolo negli studi psicoanalitici e sociologici fin dall’inizio del Novecento, e anche grandi scrittori vi hanno dedicato tempo e pagine. L’abbigliamento, al di là della sua funzione puramente pratica o estetica, è un linguaggio che può fornire in ogni momento, nello spazio pubblico e privato, una serie di informazioni non verbali sui gruppi di appartenenza, sull’identità, sulla religione, sui ruoli che si hanno, sulle strutture sociali, sull’organizzazione del potere politico, sulla sua distribuzione e sul tipo di influenza o di messaggio che si vuole esercitare o mandare all’esterno. Sia che queste informazioni siano offerte deliberatamente che incidentalmente. E questo vale da sempre: nelle organizzazioni tribali e nelle monarchie, nelle dittature e nelle rivoluzioni.
Come ogni linguaggio, anche quello connesso all’abbigliamento si compone di meccanismi complessi, che possono seguire o corrispondere a imposizioni, divieti, necessità, desideri di omologazione, logiche identitarie, di conformismo, di provocazione o contestazione a loro volta legate alla moda, e così via. Non indossare la cravatta in un contesto dove è richiesta può dare un messaggio ben preciso, così come lo ha dato, a un certo punto per le donne, decidere di liberarsi dal reggiseno o di mettersi i pantaloni. Questi stessi meccanismi, a loro volta, possono influenzare determinati stili o singoli capi di abbigliamento che, a seconda delle epoche, dei contesti o degli usi, possono perdere un significato e acquisirne uno nuovo. I jeans, nati come abito da lavoro dei cercatori d’oro e dei minatori, negli anni Sessanta e Settanta divennero il simbolo del rifiuto del conformismo sociale, finendo poi con l’essere indossati da tutte e da tutti e col perdere il loro senso politico, fino persino a diventare un elemento di nuovo conformismo sociale.
L’abbigliamento è anche un linguaggio della politica, sia quotidiana e personale sia professionale. Il potere monarchico, aristocratico, totalitario, militare, democratico si veste di abiti, a volte codificati dalle pratiche delle persone stesse che sono al potere, a volte fissati in vere e proprie norme, come le divise degli ambienti militari che indicano i vari posizionamenti all’interno di una gerarchia (un’altra polemica italiana recente è stata intorno all’uso di divise militari in contesti di ruoli civili). E a volte i politici fanno degli abiti l’oggetto della loro politica, prendendo posizione su ciò che si può o non si può indossare: usando l’abbigliamento come una forma di disciplinamento e legiferandoci intorno.
Anche al di fuori di quei mondi dove i vestiti sono normati e codificati, restano comunque attivi dei codici informali e dei dispositivi estetici a cui viene informalmente richiesto di attenersi. L’etichetta legata all’abbigliamento può dipendere dalle occasioni (matrimonio o funerale, per esempio) o dal ruolo che si ricopre, facendo diventare anche quegli abiti una sorta di divisa. In alcuni casi, questi codici (“dress code” è l’espressione inglese con cui si definiscono le norme di abbigliamento in determinati contesti) hanno assunto a tal punto una loro importanza che diventano il modo in cui intere categorie di persone vengono definite: un “colletto bianco” è chi, portando una camicia, fa un certo lavoro e ha un determinato status.
Determinati codici condivisi sono infine validi non solo per la costruzione di un’identità professionale, ma anche per la costruzione della propria identità politica o per rendere visibile, a colpo d’occhio, la propria appartenenza a determinati gruppi sociali, sub-culture o contro-culture. L’abito, in questo caso, esteriorizza un’identità collettiva esprimendo allo stesso tempo sia un conformismo interno, sia una differenziazione rispetto a chi di quel collettivo non fa parte. Dagli abiti o dal rifiuto di alcuni abiti sono passate anche diverse manifestazioni politiche, come quella femminista o dei pride.
Parlarne o non parlarne?
Raccontare come una persona è vestita, mentre ad esempio la si intervista, può rientrare nella descrizione di un intero contesto, può cioè far parte del lavoro di informazione e avere la funzione di “mostrare” la persona mentre dice le cose che dice: in modo non diverso da come i giornalisti descrivono i luoghi, i dettagli, la realtà. In una recente intervista su El País alla storica femminista Gloria Steinem, la giornalista Amanda Mars inizia proprio dalla descrizione di Steinem quando le apre la porta del suo appartamento di New York: parla dei suoi occhiali da aviatrice, dell’abito nero che indossa e dei suoi capelli, ormai grigi, con la riga in mezzo.
Tressie Mcmillan Cottom, in un articolo dello scorso ottobre pubblicato sul New York Times, si pone innanzitutto la domanda se parlare o non parlare di come è vestita una persona che ha un ruolo pubblico sia legittimo oppure no. Ci sono diverse scuole di pensiero, dice. Una di queste sostiene che non si dovrebbe mai parlare di ciò che i politici o le politiche indossano, perché è sostanzialmente irrilevante e fuorviante: ci si dovrebbe piuttosto concentrare su ciò che conta davvero, e cioè su quello che queste persone fanno, pensano e dicono. Questo argomento è molto comune, spiega la giornalista, tra chi si considera un intellettuale.
Un’altra e simile critica viene presentata da quella parte di femminismo che critica l’innegabile ossessione che la cultura in cui viviamo riserva ai corpi delle donne, e alle differenti attenzioni che ricevono rispetto a quelli degli uomini e al loro abbigliamento: per scardinarla, non si dovrebbe dare attenzione al corpo e dunque all’aspetto di qualcuna o qualcuno. Questa argomentazione ha le sue buonissime ragioni, commenta Tressie Mcmillan Cottom: è la logica e conseguente risposta a un fatto molto concreto, che anche dati e ricerche confermano, e cioè che le donne sono giudicate ingiustamente sul posto di lavoro per il loro aspetto, per il loro corpo e per il loro abbigliamento. Questo tipo di discriminazione colpisce soprattutto le donne nere, che dichiarano di sentire su di sé il peso di una preoccupazione costante: quella di essere percepite come non professionali. Ma colpisce anche le persone la cui identità di genere non corrisponde alle aspettative sociali su maschilità e femminilità, o le persone LGBTQI+ che, in diverse indagini, dichiarano di voler rendere più semplice la loro presenza sul posto di lavoro assumendo, attraverso gli abiti, un’identità omologata e conforme.
Comunque vada, il messaggio finale sarebbe che «le brave persone» non commentano l’aspetto degli altri e delle altre per non mettere in atto o per non replicare stigmi e pregiudizi. Il problema di questa conclusione, scrive però Mcmillan Cottom, è che il pregiudizio è di fatto e comunque presente, che quel fattore esiste: solo che non lo nominiamo. Quando si sceglie di non commentare i corpi o l’aspetto di una persona, si perde sempre qualcosa. Si perde, ad esempio, l’occasione di esercitare un pensiero critico su come alcuni corpi si muovano nel mondo e su come altri non lo possano fare: «Quando il nostro linguaggio si atrofizza, perdiamo la possibilità di parlare di come il potere agisce nella nostra vita quotidiana», dice Mcmillan Cottom. Chi fa politica spende poi tempo e risorse cercando di creare una messa in scena di sé che avrà delle conseguenze (lo fanno anche molte persone che non fanno politica, ma con più limitate ricadute). E a questo tempo e a queste risorse dovrebbero, di conseguenza, corrispondere pensieri e ragionamenti. Insomma: come politici e politiche decidono di presentarsi al mondo, dando, attraverso questa loro immagine, un messaggio, o più messaggi, è un pezzo della Storia e non può non essere preso in considerazione.
Lasciando aperta la questione se questo tipo di ragionamento lo si possa fare solo quando parliamo di corpi conformi, abili o bianchi, Mcmillan Cottom conclude che il problema è semmai che per molto tempo il discorso sull’abbigliamento lo si è fatto male, in modo strumentale o sessista. Non significa però che non si possa cominciare, o che non lo si possa fare con serietà e con obiettivi più analitici. E per ridefinire il campo della discussione in questo modo, suggerisce di modificare la domanda iniziale: non chiedersi, semplicemente, “che cosa indossava” quella persona, ma “qual è il significato dietro allo stile o alla scelta di un abito” da parte di quella persona.
L’uso dell’abbigliamento in politica
Quando un abito è portato da un corpo che è anche pubblico, l’atto di vestirsi diventa una specie di vestizione: il vestito, insomma, non è mai solo un vestito, ma qualcosa di molto simile a un costume di scena che porta con sé diversi significati. La canottiera di Umberto Bossi, portata anche pubblicamente, serviva a trasmettere l’immagine di un uomo vicino al popolo che voleva, anche nello stile, rompere con la tradizione dei politici italiani della Prima Repubblica. Matteo Salvini ha utilizzato felpe e magliette come parte della propria propaganda e per esprimere vicinanza a certi ambienti politici. Fu molto notata allora l’intenzione di Matteo Renzi di relazionarsi con una sua idea di gioventù partecipando a un programma televisivo con quello che fu chiamato il “giubbotto di Fonzie”. E l’abbigliamento ha avuto un ruolo significativo nella costruzione della nuova immagine politica e istituzionale di Mara Carfagna, prima di allora legata al mondo dello spettacolo, della tv e dei calendari.
Quando, nel 2017, Emmanuel Macron fu eletto presidente della Francia, tenne il suo primo discorso indossando un abito blu notte comprato in un piccolo negozio di Parigi e il cui prezzo venne rivelato quello stesso giorno da uno dei suoi consiglieri: 450 euro. La scelta fu molto commentata e giudicata positivamente dai vari consulenti di immagine intervistati sui giornali francesi: l’abito, e il suo prezzo, trasmettevano l’idea di un politico accessibile e vicino agli elettori, allontanando Macron dall’immagine di un uomo che aveva lavorato a lungo nelle banche d’affari e che proveniva dall’élite finanziaria.
Nel 2015, Yanis Varoufakis venne scelto come ministro delle Finanze della Grecia dal partito di sinistra Syriza. Prima di allora Varoufakis era un famoso professore di Economia dalle idee radicali e condusse i negoziati con la cosiddetta “Troika”, il comitato dei creditori della Grecia formato da Unione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale, in modo piuttosto aggressivo, cercando di spiazzare i suoi avversari con un comportamento eccentrico e irrispettoso del protocollo. Indossare la camicia costantemente fuori dai pantaloni aveva esattamente questo significato, e così venne interpretata: «Quale modo migliore, dopo tutto, per materializzare uno spirito di libertà e di totale disobbedienza all’autorità, che indossare la camicia fuori dai jeans?», scrisse ad esempio su Le Monde il giornalista Marc Beaugé. Varoufakis stava trasmettendo, anche attraverso il suo stile, un messaggio non verbale, in linea con le sue posizioni, molto lontane da quelle degli ambienti popolati di uomini potenti in giacca e cravatta con cui si stava confrontando.
Negli anni Cinquanta, in Argentina, Evita Perón che parlava in pelliccia e diamanti ai descamisados, i “senza camicia” delle classi più popolari della società, trasformò quelle pellicce e quei diamanti da un motivo di critica politica che molti suoi avversari le rivolgevano a una rivendicazione a favore di tutto il popolo, e al suo diritto di poterli indossare a sua volta. Le scelte stilistiche di molti leader della sinistra non mettono invece in pratica alcun rovesciamento, e sono in linea con il loro posizionamento: la camicia senza cravatta, o la cravatta rossa, per il francese Jean-Luc Mélenchon, o le maniche di camicia sempre arrotolate di Pablo Iglesias in Spagna; altre volte i golf di cachemire sono stati rimproverati a Fausto Bertinotti (che ne fece un vezzo), o le scarpe costose furono contestate a Massimo D’Alema (che sostenne non lo fossero).
Mcmillan Cottom, sempre sul New York Times, ha invece commentato in diversi articoli l’abbigliamento politicamente molto strategico della senatrice democratica dell’Arizona Kyrsten Sinema. Sinema, che si è dichiarata bisessuale, vota spesso contro la maggioranza del suo partito e si posiziona nell’ala più a destra dei Democratici, veste in modo piuttosto eccentrico e anticonformista, con mini abiti senza maniche molto colorati, parrucche e stivaloni: questo suo modo di presentarsi come qualcuna che viola le norme, anche le norme sessuali codificate, «le dà una sorta di credenziale da radicale» che non si deve guadagnare attraverso la politica che effettivamente porta avanti, e che è tutt’altro che progressista. «Essere progressista nella dimensione della sessualità le fornisce una copertura perfetta», e le sue scelte di stile vanno proprio in quella direzione: «Sfrutta le associazioni positive con la cultura e l’identità gay per distrarre dalle proprie azioni negative».
Storture nel racconto
Le scelte di stile fatte dalle donne ricevono, in generale, molta più attenzione di quanta ne ricevano quelle fatte dagli uomini: perché le possibilità di vestire in modo meno omologato sono maggiori, ma non solo. Spesso, è infatti proprio sulle donne che i discorsi intorno all’abbigliamento subiscono le peggiori deformazioni. Sui siti di news i boxini morbosi, la colonna di destra e le gallery sono molto spesso riservate a come una donna che fa politica si veste, e sono l’esempio perfetto di come il discorso intorno all’abbigliamento venga fatto male, in modo sessista, discriminatorio, strumentale per colpire o criticare la persona stessa, o non venga fatto per niente: il racconto del vestito si riduce al racconto del vestito, un semplice “guarda quella!” da strada. Tutto questo ha a che fare con i canoni estetici e di desiderabilità fissati dallo sguardo maschile, con gli stereotipi legati al genere e con l’oggettivazione del corpo delle donne usato come incarnazione di valore o disvalore.
Secondo il report dell’Istat sui ruoli di genere del 2019, il 23,9 per cento delle persone intervistate pensa che le donne possano “provocare” la violenza sessuale con il loro modo di vestire, opinione sostenuta di recente anche dal Primo ministro pachistano. Il ruolo dell’abbigliamento nei casi di stupro occupa uno spazio non solo nel cosiddetto senso comune, ma anche in alcune celebri sentenze: su tutte, la sentenza del 1999 che assolse uno stupratore perché la vittima indossava i jeans. I giudici all’epoca rilevarono che i jeans non potevano essere sfilati «nemmeno in parte» se chi li indossava non dava «una fattiva collaborazione», aggiungendo che è impossibile togliere i jeans a una donna che si opponga «con tutte le sue forze»: un dato, questo, di «comune esperienza».
Quando i giornali raccontano – male – femminicidi, stupri e abusi di genere utilizzano molto spesso dettagli morbosi sull’abbigliamento per insinuare che parte della responsabilità della violenza ricada sulla vittima stessa. Questa modalità è talmente pervasiva che “What were you wearing?”, “Com’eri vestita?”, è anche diventato il titolo di una mostra che racconta storie di abusi accanto agli abiti che le vittime indossavano al momento della violenza subita. Il progetto, nato nel 2013 negli Stati Uniti, è stato poi adattato al contesto di altri Paesi, compreso quello italiano, e viene tuttora esposto. Il discorso sulla narrazione dell’abbigliamento delle persone da parte dell’informazione ha quindi molti aspetti e variabili diverse che è utile non rendere assoluti e universali: esiste un prezioso racconto della realtà e del restituire a lettori e lettrici un’immagine coinvolgente e fedele di ciò che si racconta, che è il lavoro del giornalismo, ma esiste anche una responsabilità di ciò che si suggerisce in determinati contesti limitando il racconto ad aspetti superficiali e non contestualizzati.