«Il fantasma del palcoscenico», la critica contestataria all’industria dell’entertainment di Brian De Palma

Harbor Productions / 20th Century Fox

di Filippo Mazzarella (corriere.it, 31 ottobre 2024)

Il 1° novembre 1974 (da noi uscirà, in sordina, solo nell’estate dell’anno successivo) viene distribuito nelle sale americane Il fantasma del palcoscenico (Phantom of the Paradise). Il film è già l’ottavo lungometraggio di un Brian De Palma a un passo dalla consacrazione commerciale (che avverrà due anni dopo con Carrie – Lo sguardo di Satana); e si presenta come un eccentrico musical sui generis che combina con eclettismo stilistico elementi horror, melodramma e strali satirici contro la mercificazione dell’arte e le insidie psicologicamente distruttive del successo.

Ispirato dichiaratamente a Faust (ma anche a Il fantasma dell’opera, Il ritratto di Dorian Gray e perfino Il gobbo di Notre-Dame), il film narra la tragica vicenda di Winslow Leach (William Finley), compositore ingenuo e appassionato che ha scritto un brano-capolavoro su cui mette occhi e orecchie l’avido e mefistofelico produttore discografico Swan (Paul Williams) dell’etichetta Death Records, il quale vorrebbe usarlo per il debutto pubblico del suo nuovo palazzetto del rock, denominato Paradise. Quando Swan ruba il suo pezzo senza riconoscergli alcun credito, Winslow decide di affrontarlo ma il potente produttore lo incastra facendolo finire in carcere.

Dopo essere evaso, Winslow tenta così di distruggere lo stabilimento di stampaggio discografico di Swan, finendo però grottescamente sfigurato proprio dalla pressa del vinile. Nascosto tra le mura del Paradise, ne riemerge come una figura mascherata e vendicativa, decisa a “infestare” il locale per impedire a Swan di trarre profitto dalla sua musica. Ma questi lo incastra nuovamente facendogli firmare col sangue un insidioso accordo per cui, se Winslow completerà la sua composizione, questa sarà eseguita da Phoenix (Jessica Harper), la giovane cantante di cui il Fantasma è disperatamente innamorato.

Quando il Paradise sarà pronto per l’inaugurazione, Swan sostituirà però la ragazza con l’idolo glam rock Beef (Gerrit Graham); e, furioso, il Fantasma ucciderà la star e tenterà di salvare poi anche Phoenix, comunque corrotta in un secondo tempo dalla fama ottenuta come rimpiazzo, dalle grinfie di Swan, dopo aver scoperto che quest’ultimo ha stretto un patto col diavolo. Finirà male per entrambi. Anche unico sceneggiatore, De Palma coglie lo spirito “rock” oppositorio di un’epoca di significativi cambiamenti (contro)culturali per la società americana, sposando una critica contestataria all’industria dell’entertainment (sempre più vista come mercificatrice e sfruttatrice della cultura giovanile) e lo declina in una surreale parafrasi goethiana.

Se in Faust il protagonista fa un patto col diavolo in cambio di conoscenza e potere, nel Fantasma del palcoscenico, parimenti, il desiderio di successo di Winslow e la manipolazione di Swan riflettono i medesimi temi di compromesso morale, intersecandosi con suggestioni gotiche (il tema dell’artista sfigurato e tormentato che “invade” il luogo che aveva sognato di conquistare viene dritto dal Fantasma dell’opera; il patto che Swan ha stretto col diavolo per mantenere soprannaturalmente la giovinezza discende invece dal Dorian Gray di Wilde) e con graffi satirici profondi (come la parodia dell’industria musicale, un altro “mostro” dai contorni più sfumati le cui vittime sono i talenti immolati a un sistema che privilegia il profitto mettendo in subordine l’arte), trasformandosi a tratti anche in una riflessione (già postmoderna) su identità, tecnologia e sfruttamento nell’industria dell’intrattenimento globale.

De Palma non si ferma di fronte a nulla, estendendo la sua ferocia sarcastica e critica sia all’allora popolarissimo “sentire” glam (estetica stravagante, look teatrali, trucco vistoso e abiti scintillanti in supporto a una forma di pop-rock “energizzato”: erano gli anni del successo di David Bowie, T-Rex, Slade, Alice Cooper, Gary Glitter), ridicolizzandone icone e seguaci, sia al ruolo centrale della tecnologia (e quindi del Cinema) per sfumare il concetto stesso di realtà: come ampiamente simboleggiato dal mixer che Swan utilizza per alterare la voce di Winslow, una rappresentazione retorica ma efficace (e ancora molto contemporanea, nell’attuale era di strapotere dell’autotune) del controllo che i produttori esercitano sugli artisti rendendo la loro voce un gadget piuttosto che un reale riflesso della loro personalità.

Le performance inappuntabili dei protagonisti (per il ruolo di Phoenix – attenzione alla voce straordinaria della bravissima Harper – fece un infruttuoso provino anche Sissy Spacek, moglie dello scenografo Jack Fisk, che poi De Palma recupererà per Carrie) e dodici ottime canzoni originali (tutte composte dallo stesso Paul Williams, candidato all’Oscar per la migliore colonna sonora, che verrà glorificato per il suo lavoro decenni dopo anche dai Daft Punk di Random Access Memories, album capolavoro del 2013) concorrono al superbo risultato finale.

Che De Palma rifinisce e cesella sul piano del puro stile abbandonandosi per la prima volta a figurazioni che poi, con sempre maggiore estro e inventiva, diventeranno tipiche delle sue modalità di messa in scena: tra immagini indimenticabili (tutta la sequenza dello sfiguramento, l’uccisione “al neon” di Beef) e talora (grazie alla luccicante fotografia di Larry Pizer) consapevolmente kitsch, angolazioni di ripresa “esagerate”, splitscreen e zoom assassini quasi in forma autocritica, come se nel discorso volesse inglobare anche una reazione all’artificialità (esibita) del mezzo cinematografico, tracciando un parallelo tra il suo proverbiale barocchismo e le stesse manipolazioni di Swan, rafforzando i temi dell’illusione e del controllo.

A cinquant’anni di distanza, e a dispetto dello spaventoso flop che lo attese alla sua uscita, Il fantasma del palcoscenico non ha perso un briciolo dello statuto di cult movie cui è asceso col tempo, a partire dagli anni Ottanta (sorte toccata anche a The Rocky Horror Picture Show di Jim Sharman, 1975): posizionandosi come un’esplorazione preveggente di temi ancora (o forse più che mai) attuali nel mondo dei media odierni, ma soprattutto rappresentando per De Palma uno scarto stilistico e autoriale definitivo.

Quello che porterà l’estetica del suo cinema all’altezza vertiginosa di tanti capolavori successivi più o meno fortunati commercialmente (come i trionfi di Scarface, 1983, o The Untouchables – Gli intoccabili, 1987, o i flop de Il falò delle vanità / The Bonfire of the Vanities, 1990, e Doppia personalità / Raising Cain, 1992; ma l’elenco potrebbe continuare), in cui la forma stessa e l’idea del cinema come puro virtuosismo (concetto che in mani altrui ha quasi sempre prodotto danni) diventerà sempre più fascinosamente predominante e ineffabile.

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