Il discorso di Steve Kerr sulla strage in Texas

a cura di Luca Mazzella (fanpage.it, 25 maggio 2022)

Ferito, sconfortato, deluso. Appare così in volto Steve Kerr, coach dei Golden State Warriors, nel pre-partita di gara 4 contro i Dallas Mavericks, a poche ore di distanza dalla notizia della sparatoria di Uvalde, in Texas, dove diciannove bambini e la loro insegnante hanno perso la vita in una sparatoria ad opera di un diciottenne poi ucciso negli scontri con le forze dell’ordine intervenute. In un discorso che sta facendo il giro del mondo, Kerr, pur a ridosso di una gara fondamentale che avrebbe qualificato i suoi ragazzi alle Finals, le seste in otto anni sotto la sua gestione, ha preferito evitare ogni tipo di riferimento al basket giocato per soffermarsi sui fatti di Uvalde ed esprimere, senza troppi giri di parole, una dura condanna con tanto di nomi e cognomi dei responsabili politici dell’escalation di violenza causata dall’accesso indiscriminato alle armi che ormai da decenni non trova argine negli Stati Uniti e continua anzi ad essere ostaggio delle lobby contro cui in tanti hanno puntato il dito (l’ultimo in queste ore è stato Biden) senza tuttavia giungere ad una soluzione.

Ostaggio, esattamente il termine usato dall’ex giocatore tra le altre dei Chicago Bulls di Michael Jordan, che con le lacrime agli occhi, dopo un monologo di circa tre minuti, ha abbandonato la conferenza in preda alla rabbia. Rabbia che oggi qualcuno sta provando a derubricare alla stregua di sfogo di facciata, o “buonista”, come piace dire oggi per sminuire ogni iniziativa di coscienza civile e buon senso, o ancora preparato a tavolino, come se Kerr avesse bisogno di esporsi in questo modo per rafforzare il suo status e confermare una volta di più il suo senso civico, la sua morale, la sua sensibilità che in più di un’occasione – non ultimi gli scontri durante la bolla di Orlando successivi all’uccisione di George Floyd – l’hanno visto protagonista di durissime invettive che hanno preso il posto delle consuete interviste pre e post-partita.

Chi, persino oggi, riesce a non comprendere la portata storica di discorsi del genere fatti da uomini di sport, che secondo molti non dovrebbero andare tanto al di fuori del rettangolo sportivo quanto a mansioni, diritti e doveri sociali, continuando ad arroccarsi sulla comoda divisione tra politica e atleti che vedrebbe questi ultimi invasori non autorizzati di campo, ha evidentemente un problema di concezione in termini assoluti di cosa sia la politica e di come le singole azioni e parole di ogni giorno possano incidere nel formare e orientare pensieri politici anche quando i megafoni non sono altro che comuni cittadini, esattamente come nel caso di Kerr. Il quale utilizza la sua piattaforma e la sua notorietà per far piombare, a poche ore da una partita di basket, la sua severissima condanna verso i senatori americani e i mandanti nemmeno troppo occulti delle continue stragi da arma da fuoco negli Stati Uniti. E nel farlo, il particolare che sfugge a molti è esattamente la prospettiva dalla quale il coach dei Warriors vede le cose.

Nel 1984, infatti, quando Steve aveva diciotto anni, suo padre Malcolm, 52enne all’epoca, rimase vittima di una sparatoria a Beirut, in Libano, dove era nato e dove aveva lavorato come professore in Studi mediorientali e arabi all’Università Americana prima di diventarne preside. Due uomini, riconducibili poi a un gruppo di estremisti islamici che immediatamente rivendicò l’attentato, spararono alla nuca di Malcolm Kerr, uccidendolo sul colpo proprio nel suo ufficio. Malcolm Kerr era ben conscio dei pericoli derivanti dall’escalation di tensione in Libano dopo i bombardamenti all’ambasciata americana dell’anno precedente, ma aveva accettato ugualmente di restare al suo posto fino al tragico epilogo. «Ho ricevuto una telefonata nel cuore della notte da un amico di famiglia. Il mio telefono squillò nel dormitorio alle 3 del mattino, quindi avevo capito che qualcosa non andava. La pallacanestro è stata l’unica cosa che potevo fare per distogliere la mente da quello che era successo. Quindi sono andato a fare allenamento il giorno dopo. Non sapevo cos’altro fare», è un estratto di quanto Steve Kerr aveva detto ricordando i fatti del 1984 in The Last Dance, il documentario che ha fatto conoscere la sua storia anche al pubblico più giovane e in generale molto più vasto di chi lo aveva visto solo giocare o allenare.

È quindi normalissimo immaginare quanto una strage come quella avvenuta in Texas ieri abbia scosso maggiormente la sensibilità dell’allenatore, che meglio di ogni altro conosce il dolore derivante dalla perdita di una persona cara, per giunta nelle stesse atroci modalità. Ecco perché oggi criticarne le parole è quanto di più ignorante e irrispettoso si possa fare. Ed ecco perché anziché mettere in discussione le parole di un uomo di sport che si alza e, senza peli sulla lingua, utilizza il suo megafono per mandare il più forte dei segnali, non dovremmo fare altro che stare in silenzio e unirci al suo appello. Perché lo sport e la politica non sono scindibili come qualcuno vuole far credere, e perché chi parla con la consapevolezza e la coscienza dopo il dolore provato porta anzitutto la sua storia personale a dimostrazione della genuinità delle sue parole. Steve Kerr, oggi e per sempre, merita solo rispetto.

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