di Gabriella Saba («Il Venerdì di Repubblica», 5 aprile 2019)
A pensar male a volte ci si azzecca, ma spesso non abbastanza. Che un noto comico senza esperienza politica sarebbe stato un presidente inadeguato per il Guatemala erano in molti a pensarlo. Difficile era invece immaginare che la parabola al governo del bonaccione Jimmy Morales, famoso per lo show di satira Moralejas che conduceva insieme al fratello Samuel ed eletto alla guida del Paese nell’ottobre del 2015 per il candore con cui sventolava i suoi programmi contro la politica tradizionale, sarebbe diventato un giorno un governante autoritario e dispotico.E avrebbe addirittura espulso dal Paese la Comisión Internacional contra la Impunidad en Guatemala (Cicig). Che grazie a un accordo tra il Guatemala e le Nazioni Unite lavora dal 2007 per combattere la corruzione e la cui colpa è di aver accusato Morales e il suo entourage di aver ricevuto finanziamenti illeciti per la campagna. La Corte costituzionale ha annullato quella decisione e i guatemaltechi sono scesi in piazza, ma il presidente si è impuntato. E anche se la Commissione ha dichiarato che non smetterà di lavorare fino a settembre, alla scadenza del mandato, il personale ha lasciato il Paese e la situazione resta molto tesa.
Il problema è che Morales aveva fatto della lotta alla corruzione il cavallo di battaglia del suo programma, che nel complesso era fumoso e vago, ma il cui slogan Ni corrupto ni ladrón era diventato un leitmotiv così popolare da conquistare il 68% dei suoi connazionali, stanchi di decenni di corruzione, culminati nell’arresto dell’ex presidente Otto Pérez Molina e della vice Roxana Baldetti. A condurre le indagini era stata proprio quella Cicig che Morales ha ora espulso, con la scusa che avrebbe violato i diritti umani, dichiarando persona non grata il suo coordinatore, il colombiano Iván Velásquez: uno diventato famoso per le battaglie contro Pablo Escobar e per aver smantellato il sistema di collusioni tra paramilitari e politici ai tempi di Álvaro Uribe.
Alle elezioni del prossimo 16 giugno l’ex comico non potrà ricandidarsi – la legge vieta i due mandati –, ma le sue chance di essere rieletto sarebbero comunque nulle: il suo consenso è sceso dall’80% di inizio mandato al 20% attuale. A conferma della sua scarsa popolarità ci sono le tante manifestazioni che ne chiedono le dimissioni e protestano contro la decisione del Congresso di salvarlo dall’impeachment. Le uniche marce in suo favore sono quelle che appoggiano l’inasprimento delle sanzioni contro l’aborto e il matrimonio tra persone dello stesso sesso.
Una triste deriva la sua, da comico brillante a livoroso difensore dei propri privilegi, profondamente antidemocratico e ridotto a una di quelle macchiette alla cui imitazione doveva la sua fama. Il Jimmy di Moralejas era esilarante quando, la testa coperta da una bandana rossa e i denti finti e sporgenti, raccontava il Guatemala con lo sguardo del popolo da cui lui stesso arrivava: figlio di una famiglia povera, aveva cominciato a lavorare a 6 anni, come ambulante dopo la scuola. Ma il capitale di simpatia e fiducia è sfumato in fretta. Pochi mesi dopo l’insediamento, il figlio e il fratello Sammy vennero beccati per una fattura falsa rilasciata da un ristorante per coprire presunte spese di rappresentanza. Poi la moglie Patricia è stata indagata per un assegno non giustificato. Un Jimmy molto contrito aveva dato la notizia ai suoi connazionali esigendo una giustizia senza sconti ma implorando, anche, di non linciare i suoi familiari. Nel frattempo sono successe altre cose non proprio onorevoli: per esempio è saltato fuori che l’uomo forte del governo Morales è il deputato e colonnello in pensione Edgar Ovalle, accusato della scomparsa di 565 civili durante la guerra civile e che nel marzo del 2017 è stato sottoposto a processo dopo l’autorizzazione della Corte Suprema de Justicia Nell’euforia per l’elezione di quell’uomo nuovo, estraneo ai giochi di palazzo e fervente evangelico, era sfuggito infatti a molti – o forse non interessava – che il partito per cui correva, l’ultranazionalista Frente de Convergencia Nacional, era guidato dai veterani della guerra che aveva insanguinato il Paese dal 1960 al 1996 ed era terminata con un accordo di pace che i militari non hanno mai accettato. Ed è proprio per accontentare quella potente frangia che il Congresso, in cui il presidente ha la maggioranza, ha approvato a febbraio la modifica che applica l’amnistia anche ai responsabili di genocidio e torture.
Congelata per le reazioni della comunità internazionale, quella misura è una spada di Damocle le cui conseguenze sarebbero inquietanti per un Paese che non ha mai fatto i conti con il passato e in cui molti non hanno pagato: basti pensare all’ex dittatore José Efraín Ríos Montt, morto l’anno scorso a 92 anni senza aver scontato un solo giorno di carcere per lo sterminio di 12mila persone (200mila furono in totale le vittime del conflitto), di cui la maggior parte indigeni, durante i 17 mesi in cui governò tra il 1982 e il 1983. La figlia Zury, oggi è tra i 24 aspiranti alla presidenza e nel caso si sciolgano le riserve sulla sua candidatura ha qualche chance di essere eletta, visto che la appoggiano gli influenti circoli ultraconservatori.
Storiacce di corruzione a parte, non si può dire che il presidente abbia fatto granché per il Guatemala – tra i più arretrati e poveri dell’America Latina. Tutti gli indicatori hanno il segno meno, salvo il numero di omicidi – ma lui lo dipinge come il Paese dei balocchi. Le ha tentate tutte per riguadagnare consenso, ma più va avanti e più la sua esile tempra politica mostra la corda. Perfino la crociata del sovranismo contro il globalismo con cui ha cercato di nobilitare l’espulsione della Cicig gli si è ritorta contro, visto che secondo i sondaggi il 70% dei guatemaltechi apprezza il lavoro della Commissione.
È tuttora da capire, intanto, se sarà una mossa a suo favore l’ordine di arresto per malversazione e frode fiscale emesso qualche giorno fa contro la candidata più prestigiosa alle presidenziali, la 63enne ex procuratrice generale Thelma Aldana del partito Semilla. Si tratta della donna che ha portato insieme a Iván Velásquez alla condanna di Pérez Molina e all’accusa di Morales e che la rivista Time ha inserito nel 2017 nella lista delle 100 persone più influenti del mondo. Raggiunta dalla misura cautelare mentre si trovava in Salvador, ha dichiarato di essere vittima di una persecuzione politica e si è appellata alla comunità internazionale. Intanto nel Paese cresce la tensione a mano a mano che si avvicinano le elezioni di giugno. E molte cose possono ancora succedere.