Il comico come rivoluzionario

Dai giacobini a Grillo, il ruolo dei commedianti nella politica

di Marzio Breda («Corriere della Sera», 3 maggio 2014)

Quando stava per lasciare il Quirinale, Francesco Cossiga confessò il senso della sua ultima, ruggente stagione al vertice della Repubblica. «In un Paese normale se un capo dello Stato facesse quello che faccio io l’avrebbero mandato al diavolo in cinque minuti. I miei atteggiamenti da matto erano voluti. Siamo nella società dello spettacolo, no? Ho fatto così per bucare il video». Spiegò dunque di essersi assegnato «il ruolo del fool del teatro elisabettiano», fingendosi pazzo per smascherare verità occultate e lanciare una profezia della catastrofe che avrebbe dovuto imporre un cambiamento generale. Insomma: aveva vestito i panni dell’attore per fare politica. Vent’anni dopo lo schema si ripete, a parti invertite. Stavolta è un attore a utilizzare le risorse del mestiere per farsi politico. Lo ha in un certo modo anticipato a metà della propria parabola: «Non sono più un comico, sono uno psicopatico, urlo, mi sfogo e mi danno i soldi» (prima quelli e poi i voti).Ponte_di_Pino

Pure lui è divenuto una «bocca della verità», per scuotere la gente, scardinare il sistema e vaticinare un’Italia nuova. E, come accadde al «picconatore», divide il Paese. È una storia con diversi precedenti, quella di Beppe Grillo, l’animale da palcoscenico che ha creato un movimento scelto alle urne da otto milioni di cittadini. Infatti, la capacità di conquistare spazio pubblico e potere utilizzando drammaturgie più o meno innovative, è una costante della politica. Se è scontato pensare al Mussolini mattatore-regista-tribuno, che ipnotizzava le folle attingendo anche alla retorica del teatro futurista, un caso di scuola ci richiama a Guglielmo Giannini, sceneggiatore e commediografo che inventò il «Fronte dell’Uomo Qualunque», esploso come quinto partito nelle elezioni del 1946 con lo slogan «non ci rompete più le scatole», variante meno sguaiata del «vaffa…» grillino. La fiammata si spense presto, ma allarmò l’establishment. Chi cerca avventure analoghe può andare più indietro nel tempo. I due mondi storicamente si tengono. Lo si è visto in un paio di rivoluzioni: quella francese del 1789 e quella russa del 1917, durante le quali molti teatranti furono decisivi nella spinta a sovvertire l’ordine costituito, diventando politici professionali. Oggi sarebbe temerario dire in che misura Grillo sia associabile a esempi simili. Di sicuro, però, nella crisi della democrazia, il suo populismo digitale va tenuto sotto osservazione. Perché il percorso che ha imboccato nella società e nei media delinea un «teatro di guerra». Oggi c’è uno strumento in più, prezioso, per analizzare il fenomeno, ed è il saggio Comico & Politico (Raffaello Cortina Editore, pp. 250, € 15), scritto da Oliviero Ponte di Pino, attivo nell’editoria, docente universitario e studioso del teatro. Grillo, spiega nel suo scavo parallelo Ponte di Pino, dispone di qualità tipiche del grande attore: sa entrare in sintonia con le ansie segrete del pubblico ed è abile nel gestire gli stati d’animo, «plasmando la realtà in materia spettacolare ad alta temperatura emotiva». Dal collega francese Coluche («smetterò di fare politica solo quando i politici smetteranno di farci ridere»), conosciuto nell’85 sul set di un film, sembra aver imparato a fare della satira la più distruttiva delle armi. Già nelle sue prime apparizioni in tv risuonano echi da agitatore, che mira alla tabula rasa dei partiti. Non erano comizi. Performance «eretiche», piuttosto. Come la battuta sul viaggio di Craxi in Cina – «ma se qui sono tutti socialisti, a chi rubano?» – che gli costò un «esilio catodico» dal quale è uscita rafforzata la sua vis polemica. Poi, per scatti successivi, ricostruiti con efficacia nel libro, la svolta verso la politica. Il comico la matura su circuiti alternativi alla tv, «mettendo a punto il proprio dispositivo ideologico e spettacolare» grazie anche a un costante lavoro di documentazione dietro le quinte. Si trasforma da vendicatore degli scandali della casta denunciati dai vari Gabibbi (Ricci è stato autore dei suoi testi) e da Stella, Rizzo e Travaglio, e fin dai primi anni Novanta i giornali parlano di un «partito del Grillo», che va all’incasso di quegli umori. Ormai «la dimensione teatrale aveva incontrato quella politica» e l’incontro con l’esperto di strategie comunicative e della rete Gian Roberto Casaleggio completa la metamorfosi. E qui si aprono le incognite con cui l’Italia dovrà fare i conti. Dopo le elezioni del 2013 è stato detto che «non è normale un Paese dove un guitto prende tutti quei voti». Certo, non è normale. Ma quella sentenza riflette lo choc di chi rinuncia a capire e spera che l’incubo svanisca in pochi mesi, come fu per i girotondi. Sbagliato. Non a caso il settimanale americano «New Yorker» aveva notato la novità fin dal 2008, indicando Grillo come «the italian version of Michael Moore», mentre l’ambasciata Usa a Roma, dopo il successo dei «vaffa-day», aveva invitato l’attore-politico a pranzo per valutarne gli apocalittici presagi. Lo presero sul serio, quindi. Adesso, dopo che il Movimento 5 Stelle si è consolidato (pur tra le ambiguità di una gestione personalistica e radicaleggiante), i nodi da sciogliere sono complessi. Ponte di Pino li ha esplorati in profondità. Hanno a che fare con il principio di rappresentanza tradizionalmente inteso e, attraverso l’avvento dei meet-up, con nuove forme di democrazia partecipata. La rete sta cambiando la politica. Si pretenderebbe di modificare il sistema imponendo la filosofia di Google, che fa «votare» milioni di persone ogni giorno su qualche argomento. E, in una società sempre più esposta a suggestioni e manipolazioni, dietro i Big Data si profila forse l’incubo del futuro.

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