di Giona Nazzaro (agi.it, 10 gennaio 2023)
Come nel saggio adagio del catechismo, che ricordava ai bambini che l’astuzia più perfida del Diavolo è stata di far credere di non esistere, il regime teocratico iraniano – sul versante meramente artistico – è riuscito, quasi sempre, a far passare l’idea di non esistere. O di essere vittima delle grandi potenze mondiali (gli Usa in testa). Questa idea, purtroppo, è passata soprattutto attraverso la strumentalizzazione del grande cinema iraniano degli anni Novanta.
Maestri come Kiarostami e Mahkmalbaf, per citare solo i due nomi più noti, hanno dovuto fare di necessità virtù lavorando di allegoria e metafora per aggirare i mille ostacoli di una censura oscurantista, fumosa e letale. Paradossalmente quella che era una necessità, sopravvivere e continuare a dire, sovente è stata letta come una sorta di autorialismo che sembrava rispondere alle esigenze di uno sguardo europeo, in cerca da un lato di facile esotismo e dall’altro di conforto alle proprie idee. Per cui i dubbi ontologici di Kiarostami venivano ridotti a un cinema da imporre al cattivo gusto del cinema commerciale, mentre pochissimi coglievano il sostrato di frustrazione e furore che giaceva al di là dell’immagine.
Non è un caso che l’ultimissimo film del maestro Kiarostami sia 24 Frames, che coglie la realtà completamente essiccata, un’immagine alla volta. Altro che poesia dell’ineffabile! Kiarostami giunge con quel film alla fine stessa delle strategie del dire imposte dalla censura del regime, oltre la quale non ci sono più possibilità per agire e creare. Bisogna davvero eliminare lo spettro della poesia dalla contemplazione del cinema iraniano, perché altrimenti non si capisce la furia liberatoria che attraversa le strade del Paese. Quella che ai nostri occhi appariva poesia era necessità di sopravvivenza. E non è un caso che non appena cineasti come Rasoulof hanno iniziato a porre domande dirette, esaurite ormai le figure retoriche della sottrazione, è riscattata la persecuzione. D’altronde, la censura vede sempre meglio dei borghesi. Basti pensare alla persecuzione subita da Keywan Karimi e dai suoi film.
Oggi questo muro invalicabile rivela i segni dello sgretolamento, che sono sempre stati presenti ma che non riuscivamo a vedere. E se a volte sembrava che dall’Iran fosse possibile criticare lo stato delle cose, bisogna anche osservare come queste critiche in fondo fossero sempre dirette all’operato di singoli uomini, e mai al sistema in quanto tale. L’esistenza quindi di critici e artisti è sempre stata determinata dalla maggiore o minore benevolenza dei cosiddetti riformisti e di chiunque abbia visitato Teheran in tempi diversi.
Vivere in un regime di benevolenza armata (quando andava bene) o punitiva (quando andava malissimo) ha dato vita a una frustrazione schizofrenica per la quale saranno necessarie moltissime generazioni prima che i danni antropologici e psichici siano riparati (basti pensare ai giovani che vivono dietro le tende chiuse con il terrore di essere denunciati dai vicini…). E vedere il regime che oggi, una volta di più, si accanisce contro artisti, pensatori e sportivi è il segno di un mondo che pur avendo finto aperture si sogna più vicino ai talebani che ai festival del cinema.
La repressione di questi giorni manda un messaggio chiaro: non sarà lo status di “intellettuale” a proteggere dalla furia del regime. Kiarostami e gli altri questo lo sapevano bene e ce lo hanno detto come potevano. La beffa oltre al danno è che, dopo anni di censura, oggi autori come Kiarostami sono venerati come espressione di arte dagli stessi che questi registi hanno perseguitato, come se avessero operato in perfetto accordo con le indicazioni delle norme del regime. Siamo noi che non abbiamo capito, fissando il dito della poesia, che indicava la Luna della repressione.