Il cinema della Nigeria del Nord è prigioniero della censura islamica

di Dario Ronzoni (linkiesta.it, 15 luglio 2021)

Quando si parla del cinema nigeriano, il primo riferimento che viene in mente è Nollywood. È quasi un’equazione: del resto la definizione, coniata dal New York Times nel 2002, viene utilizzata per indicare la totalità del cinema prodotto in Nigeria (al secondo posto nel mondo per numero di film, dopo appunto Bollywood). Anche se sarebbe più corretto fare alcune distinzioni. Soprattutto perché i film prodotti del Nord del Paese, oltre ad avere un carattere specifico ed essere girati in lingua Hausa, appartengono a una tradizione precedente, già sviluppata negli anni Novanta.

Ph. Femke van Zeijl / Al Jazeera

Tanto che nel 1999, come ricorda un reportage di Le Monde, era nata l’espressione “Kannywood”, dal nome di Kano, città che ospita quattro milioni di abitanti e soprattutto la maggior parte degli studi di produzione della zona. Kannywood, insomma, è nata prima di Nollywood ma è cresciuta meno perché, nel 2000, in undici Stati del Nord del Paese, venne introdotta la sharia, cioè la legge islamica. La cosa impose una brusca frenata alla produzione di film. Alle autorità non piacevano, soprattutto, le libertà delle donne messe in scena. I movimenti esibiti, le effusioni (seppur castissime) davano fastidio tanto che, all’inizio, la proibizione era netta: niente film. Con il tempo si trovò un compromesso: ogni pellicola sarebbe stata visionata in anticipo da un comitato di censura, che avrebbe valutato la sua conformità con i dettami della religione e della cultura del Paese e, nel caso, sarebbe intervenuto a tagliare qualche passaggio ritenuto inadatto. «A me hanno fatto togliere una scena da uno dei miei film perché il movimento di anche fatto dall’attrice era considerato volgare», spiega al quotidiano francese Ali Nuhu, vera e propria star del cinema Hausa nigeriano e, insieme, di quello in Inglese del Sud. Attore e regista, e presente in oltre cinquecento film, è stato il primo a muoversi in entrambe le industrie cinematografiche del Paese. «Mi avevano consigliato di dedicarmi solo a Nollywood e abbandonare Kannywood», spiega raccontando la propria carriera. «Ma ho sempre detto di no. È importante, per non perdersi, conservare le proprie radici». In ogni caso, per evitare problemi con la censura, anche per i film prodotti al Sud sceglie solo film che non contravvengono alle norme della sua regione. Una mossa obbligata, forse.

Nel 2016 l’attrice Rahama Sudau (anche lei una celebrità del cinema) era stata messa al bando da Kannywood a causa del videoclip girato con il cantante Classiq: l’attrice prendeva le mani del rapper e, addirittura, lo abbracciava. Per le autorità questo atteggiamento è da considerare scandaloso, volgare e, perciò, vietato. Le regole della censura sono molto rigide. Sullo schermo, ogni contatto tra donne e uomini è proibito. Le donne devono essere vestite in modo modesto e non provocante. I loro stessi movimenti devono essere misurati. Altrimenti l’accusa ufficiale è quella di oscenità. Anche per questo Kannywood s’ispira, per stile, temi e contenuti non alle produzioni americane o europee ma al cinema indiano di Bollywood. Anche qui le donne hanno il capo coperto, spesso sono timide e, come spiega a Le Monde il professor Abdallah Uba Adamu, «riproducono lo spazio familiare caro alla cultura Hausa». Com’è intuibile, gli spazi espressivi sono ristretti e anche il mercato per i film di Kannywood è limitato. Il tentativo d’inizio mandato del presidente Muhammadu Buhari di espandere l’industria cinematografica di Kano è naufragato tra le proteste dei leader religiosi, preoccupati per le conseguenze che avrebbe avuto sulla moralità pubblica. Quello che rimane è un mercato con pochi sbocchi: a parte i canali locali, i film e le serie prodotte a Kano possono venire ospitati sui canali Youtube dei registi o, nel caso, su una piattaforma apposita chiamata Northflix, dedicata ai film in lingua Hausa. Ma anche qui è impossibile aggirare i divieti: ogni video deve essere visto e approvato dal comitato per la censura. Il tutto in nome della morale e dei buoni costumi.

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