di Fabrizio Gabrielli (esquire.com, 8 marzo 2024)
Uno dei passaggi de Il regno di questo mondo che mi ha fatto più esplodere il cervello quando l’ho letto per la prima volta è quello in cui Alejo Carpentier parla dei piatti del negro che venivano lodati «per l’abbondanza di carni nella sua olla podrida, quando voleva soddisfare l’appetito di uno di quei facoltosi spagnoli che venivano dall’altra parte dell’isola». Un cuoco, il negro, che «col suo alto berretto bianco in mezzo al fumo della cucina aveva un certo tocco privilegiato per preparare i vol-au-vent di tartaruga o decorare i piccioni au bois».
Il fatto che quel negro non fosse che Henri Christophe, che di lì a pochi anni si sarebbe autoproclamato «Re dello Stato di Haiti, sovrano di Tortuga, Gonave e altre isole vicine, Distruttore della Tirannia, Rigeneratore e Benefattore della nazione haitiana, Creatore delle sue istituzioni morali, politiche e militari, Primo Monarca incoronato del Nuovo Mondo» più una manciata di altri titoli, molti dei quali contraddetti poi con una maniera di regnare piuttosto autocratica, ecco, mi aveva acceso un glitch interessante sui rapporti tra la figura del cuoco e quella del capo, che attingono alla medesima radice lessicale: chef.
Henri Christophe, o Enrico I di Haiti, ha visto il regno scivolargli di mano quando ha scelto di non compiacere più il versante Sud dell’isola, sotto il dominio degli spagnoli, quella che è oggi la Repubblica Dominicana: se avesse continuato a servire una olla podrida ricca di carne agli spagnoli, chissà. Il successo e l’insuccesso, in cucina come nella vita, camminano funambolici sul filo rosso, sottilissimo, dell’esattezza della ricetta: basta dimenticare un ingrediente, o dosarlo male, e finisce in tragedia.
François Vatel, qualche centinaio d’anni prima, in Francia, si era suicidato quando al banchetto con cui avrebbe dovuto riconquistare le grazie di Re Sole – che lo aveva cacciato dalle sue cucine sostanzialmente per invidia – non era riuscito a servire l’abbondanza ittica che lo aveva reso celebre, e che aveva preventivato. Henry I, invece, si è suicidato mentre nella sua cittadella, che aveva fatto cospargere di sangue di toro per renderla invalicabile, impazzava un golpe partito, guarda caso, dalle cucine.
Come ha scritto Aldo Buzzi nel suo bellissimo L’uovo alla kok, la cucina, prima di ogni altra cosa, è un sapere occulto che serve tanto al piacere quanto alla sopravvivenza. La fame, la gente, la manda al manicomio. Mentre se hai il cibo hai le donne, i soldi, l’ammirazione degli altri. Il cibo è uno strumento di potere, ma anche di terrore. Perché quando hai tra le mani la capacità di cucinare, e quindi di sfamarti, e quindi di far star bene le persone, hai tra le mani il segreto della felicità, una quasi onnipotenza. Forse non è un caso che Idi Amin, dittatore dell’Uganda per tutti gli anni Settanta, si fosse proclamato «Signore di tutte le bestie della Terra e dei pesci del Mare»: un titolo che starebbe bene anche a un cuoco molto esperto; ruolo che, peraltro, lo stesso Amin aveva ricoperto in un reggimento coloniale britannico – nonostante il piatto che più amasse cucinare, e farsi cucinare, fossero le arance, che reputava il miglior elisir afrodisiaco.
Il potere nelle mani dei cuochi che cucinano per capi di Stato, poi, specie quando questi capi di Stato concentrano nelle loro mani tutto il potere, è qualcosa che può farti girare la testa: un tema ricorrente nel bel libro scritto da Witold Szabłowski, Come sfamare un dittatore. Non foss’altro perché dalla sapienza delle loro mani in cucina dipendono gli umori, e in qualche caso la vita stessa, dei medesimi dittatori. Il cuoco del tiranno albanese Enver Hoxha, a conoscenza del diabetismo del dittatore, sapeva bene che bastava un piccolo dolcetto per rinfrancargli il morale: da quel cambio di mood dipendeva la sua vita, e quella di chissà quante altre persone.
E poi un ingrediente – più o meno volutamente – sbagliato, una cottura o una conservazione incoscienziosa possono porre fine a un regime intero: è per questo che tra chef, in entrambe le accezioni, spesso s’instaura una relazione di mutua fiducia che trascende l’etica, o il buon gusto. Il cuoco che, all’Hotel Astoria, aveva sfamato Rasputin ottenendo in cambio un rublo di ricompensa per l’eccellenza della sua cucina, sarebbe poi diventato il cuoco di Lenin e di Stalin: si chiamava Spiridon Ivanovič Putin, e se il nome suona familiare, beh, suona bene, perché di Vladimir Vladimirovič Putin era il nonno.
Nessuno si aspetta che un cuoco abbia delle opinioni. Eppure, come diceva Anthony Bourdain, con i loro vestiti da pirati, la benda alla testa, l’aria spavalda, i tatuaggi, gente che parla un curioso slang che mescola il dialetto locale a termini tratti dalla controcultura, e aggiungo io con la loro ambizione, e la loro leadership innata, gli chef sono davvero, in nuce, quanto di più somigliante all’epicentro del potere. E, come molti dittatori, una certa tipologia quantomeno, emergono dai bassifondi della società, dall’immigrazione illegale – Henri Christophe era arrivato ad Haiti da schiavo –, o dalla prigione dove casomai hanno imparato il mestiere.
Evgenij Prigožin, dopo un passato burrascoso da ladruncolo, uscito di galera mentre l’Unione Sovietica crollava, si era messo a vendere hot-dog per strada. Di lì, anche grazie a una spregiudicatezza che l’aveva portato ad approfittare di una serie di legami non proprio pulitissimi, aveva cominciato a dirigere una serie di ristoranti nei quali aveva investito anche il presidente russo Vladimir Putin. Del quale era poi diventato cuoco di fiducia: era lui a cucinare nelle cene di gala, a servire agli astanti delle tavole del Cremlino carne di struzzo della Somalia, coccodrillo, squalo grigio e piranha.
Putin che si fida di qualcuno suona implausibile? Suona implausibile, piuttosto, che due capi possano legare le proprie vite l’uno all’altro. Non è del tutto inatteso, quindi, che Prighozin sia diventato poi capo del Gruppo Wagner, un gruppo indipendente – inizialmente – di mercenari che avrebbe costituito la più importante minaccia al governo putiniano dell’ultimo decennio. In fin dei conti è così che funziona la guerra, nelle cucine come nella Storia: ognuno vuole tenere le sue pentole più vicine al fuoco di quelle del rivale.