di Fulvio Abbate (huffingtonpost.it, 28 settembre 2018)
La storia italiana sovente e volentieri si affaccia al balcone. Il rimando a Mussolini è scontato, ma val la pena citarlo perché Luigi Di Maio ha fatto molto meglio. Se Palazzo Venezia era molto lontano dal centro del potere, il vicepremier e i suoi, ossia la sua claque ministeriale, hanno fatto uso direttamente del balconcino di Palazzo Chigi, lo stesso che fino a oggi, salvo memoria contraria, aveva ospitato nient’altro che le aste delle bandiere.
Ieri sera, giù, in basso, c’era la manifestazione dei parlamentari, cui a breve si sono aggiunti, diligenti, anche i ministri salariati dello stato a guida MoVimento 5 Stelle e, va da sé, della Casaleggio Associati. Ce l’hanno fatta, la “manovra del popolo” è realtà, il 2,4 brilla ora al centro del tricolore, come già un tempo lo stemma sabaudo. Leo Longanesi in verità sosteneva che dovesse campeggiare il motto “Tengo famiglia”, ma anche così non siamo molto lontani dal vero, la fama di retorica sovranista dell’utente medio grillino è al momento soddisfatta. “Avete visto? Avete visto?”, sembra suggerire Di Maio, e in questa sua asserzione c’è soddisfazione ma anche un monito a chi riteneva che il suo partito fosse subalterno, messo all’angolo dall’alleato Salvini, se non condannato a un vero e proprio “facesitting” da parte della Lega colma di argomenti, autoritarismo convincente presso un popolo che non vede poi così male il fascismo nazionale endogeno. Lì a Piazza Colonna, davanti a Palazzo Chigi sembra anche di scorgere il fantoccio del ministro Tria, idealmente, virtualmente appeso in testa in giù, come in un’apoteosi del festa, farina e forca pentastellata. Il messaggio ha la stessa evidenza lugubre di certi proclami del fascismo nei suoi giorni terminali, almeno quando Luigi paventa il ghigno. La cerimonia del balcone segna, dunque, un punto di svolta anche nel linguaggio plastico del cerimoniale politico del governo odierno. Di Maio si riprende la scena, impalla Salvini momentaneamente, e compie un atto d’arroganza e insieme di propaganda. Dài, un po’ di storia in questo caso non guasta: il Pci, implicitamente mostrandosi forza di governo, scendeva in piazza dopo che le Brigate Rosse assassinavano il sindacalista comunista Guido Rossa; oppure, tornando ai balconi, i suoi dirigenti si mostravano affacciati in Via delle Botteghe Oscure giusto la notte di vittoria elettorale, e lo facevano con sobrietà, mai un Togliatti, neppure da primo ministro, si sarebbe sporto con sicumera a Palazzo Chigi. E ancor meno lo avrebbero fatto le grisaglie, davvero ministeriali, democristiane; giusto Berlusconi dal suo Palazzo Grazioli, ma in quel caso si trattava di una variante spettacolare. Ora i blazer di Di Maio e dei suoi ministri, in nome della “manovra del popolo” (si sappia che nei social il suddetto Popolo ha subito vestita la maiuscola sovranista) si mostrano ed esultano, quasi catarticamente. La stessa apoteosi, metti, di quando a Napoli si compie il miracolo dello scudetto, tra la V di vittoria e un pugno chiuso da ring pugilistico ben sollevato. Pochi minuti prima, ordinata e ordinaria processione, come nella gita al santuario, i parlamentari, già allertati e convocati, avanzano verso la piazza del 2,4%, appunto riconsacrata per la circostanza, manifestazione, corteo, sfilata così spontanea da portarci a immaginare un Casalino lì dietro l’angolo a distribuire loro le bandiere del MoVimento come prontamente farebbero i bengalesi con gli ombrelli in vendita al primo sentore di pioggia. Adesso Di Maio è sceso, si è incarnato, si è fatto capopopolo tra i suoi deputati e senatori, e mostra soddisfazione evidente, un’implicita, spettacolare risposta anche – perché no – a Salvini che finora gli ha occupato la scena, lo ha sadicamente “impallato” con i suoi argomenti da fascismo portatile rionale. E intanto rieccolo il fantoccio di Tria, sempre idealmente, virtualmente deposto, anzi sembra di vederlo trascinato dalle auto blu dei Toninelli, dei Fraccaro, dei Bonafede. Forse c’è anche il simulacro dell’ex ministra Fornero. Avete visto, infami, che ve lo stiamo dando il reddito di cittadinanza? E voi che non ci credevate! Quelli della Ragioneria generale volevano inchiodarci sulla linea del bagnasciuga dell’1,9, e noi siamo invece avanzati fino al 2,4. Adesso è chiaro chi comanda qui, adesso è chiara la volontà del popolo, e non saranno quelli di Bruxelles a decidere come debba essere disposto il pallottoliere dei nostri conti. Così, sia pure per sommi capi, il sottotesto dell’accaduto, demagogia 2.0 che si concede un proprio arengario, un proprio posto al sole, ed ecco anche la quarta sponda del “governo del cambiamento”. Abbiamo navigato a vista, certo, ma alla fine avete visto dove vi ho portato, sembra ancora dire adesso esplicitamente Di Maio ai suoi deputati che gli stanno intorno e sorridono, se è vero, come abbiamo saputo, che il giorno prima, in una sorta di un Gran Consiglio segreto e insonorizzato, proprio il vicepremier, con tono degno di un celebre caporale d’onore, aveva detto ai suoi gallonati: non eravate niente, sono io che vi ho fatto diventare ministri, e dunque non rompete le scatole, e dunque sorridete e in alto la bandiera. Quasi un ritorno ai grami primi giorni dei gazebo, che pretende ora una sorta di orgoglio da “antemarcia”. Non occorre essere grandi semiologi come Roland Barthes per fare caso a un Di Maio senza cravatta, idem i suoi, retorica iraniana, dove la cravatta è appunto segno di non appartenenza al Popolo. “Per la prima volta nella storia c’è un governo che mantiene le promesse”, si concede Di Maio e chissà se ci crede anche lui. Infine un “Ciao, ragazzi!”. Dove quel “ragazzi” riassume in un unico blocco indistinto (“Famo er blocco?”, suggeriscono al mercato di Porta Portese per venderti tutto il banco) ministri, deputati, senatori e perfino gli inviati dei giornali guardati a vista ora con diffidenza ora con intento ruffiano, da possibili compari. La sensazione finale è che quando lui e i suoi pronunciano l’acronimo Def non sappiano esattamente di ciò che stanno parlando, un ircocervo estraneo alla dialettica semplificata di un movimento che si nutre ora di analfabetismo istituzionale o di improvvisazione, s’intende con tono piccato. D’altronde il dittatore dello Stato libero di Bananas di Woody Allen insegna: il minuto dopo la presa del potere è doveroso imporre che la biancheria intima sia indossata a vista sugli abiti. Così si fa nei sistemi plebiscitari, così si fa quando si concede un reddito di cittadinanza, e dunque, sempre implicitamente, ritorna il “vaffa”. Rivolto all’Europa. Altrimenti non sarebbe “la manovra del popolo”, di più, del Popolo.