di Massimo Mantellini (ilpost.it, 27 settembre 2019)
Qualche anno fa, mentre preparavo un seminario, mi accorsi — o per lo meno così mi sembrò — che i primi anni della Internet commerciale, verso la metà degli anni Novanta del secolo scorso, alcune sensazioni che si respiravano allora, avessero qualcosa in comune con una rivoluzione precedente, quella di trent’anni prima, nata nelle università californiane e finita qualche anno dopo con il maggio francese del 1968.
Due documenti storici mi sembrava potessero unire quei due periodi: il testo di una famosa canzone di Bob Dylan, The times they are a-changin’, e la meno nota Dichiarazione d’indipendenza del cyberspazio di J.P. Barlow, un documento che chiunque conosca la storia di Internet avrà sentito nominare almeno qualche volta. È il 1964 e Dylan, che a quei tempi ha ventitré anni, ce lo dice senza giri di parole dalla sua faccia pulita. Chiede a noi adulti di toglierci dal mezzo. Lo fa bruscamente, con una dichiarazione ufficiale: ci minaccia, ci indica come l’ostacolo che sarà rapidamente spazzato via. Poi certo, le cose sono andate come sono andate. Poco più di trent’anni dopo, l’8 febbraio 1996, John Perry Barlow, uno strano attivista dei diritti civili, fondatore della più gloriosa associazione per le libertà digitali, la EFF [Electronic Frontier Foundation, N.d.C.], che è anche autore dei testi di una famosa band americana, i Grateful Dead, pubblica a Davos la sua celebre Dichiarazione d’indipendenza del cyberspazio; inizia così:
Governi del mondo industriale, voi noiosi giganti della carne e dell’acciaio, io vengo dal Cyberspazio, la nuova casa della Mente. Nell’interesse del futuro chiedo a voi, che fate parte del passato, di lasciarci soli. Non siete benvenuti fra di noi. Non avete sovranità dove noi ci riuniamo. I Governi traggono i loro poteri dal consenso dei governati. Voi non siete stati né richiesti né accolti da noi. Non vi abbiamo invitato. Voi non venite dal Cyberspazio, la nuova casa della Mente. Non abbiamo eletto governi, e non ne vogliamo uno, così io mi rivolgo a voi con una autorità non più grande di quella con la quale la libertà stessa sempre parla. Io dichiaro lo spazio globale sociale, che stiamo costruendo, essere naturalmente indipendente dalle tirannie che voi cercate di imporci. Non avete alcun diritto morale di governarci, né di possedere alcun mezzo di costrizione, che abbiamo buoni motivi di temere.
Come si può notare i toni sono differenti, la sintesi di Dylan è stata sostituita dalla retorica leggermente pomposa di Barlow, ma molti temi sembrano ripetersi con esattezza a tre decenni di distanza. In particolare la richiesta per noi adulti di farsi da parte, il rifiuto di riconoscere l’autorità di una società e di un governo percepiti come distanti e superati. Barlow, come Dylan, parla a nome di una generazione che chiede al potere di farsi da parte, a tratti lo accusa esplicitamente di tirannia. Un aspetto forse interessante è che Barlow, quando scrive la Dichiarazione, è un uomo adulto, ha quarantanove anni. Non è un caso che il tratto anagrafico non compaia nel testo. Non sono i giovani a chiedere ad anziani che non capiscono (don’t stand in the doorway, diceva Dylan ai senatori e ai deputati) di spostarsi, ma sarà abitare nella casa della Mente, quello spazio che oggi forse chiameremmo “social network”, a tracciare la linea fra chi sarà dentro e chi sarà invece fuori, irrimediabilmente allontanato da ogni ipotesi di futuro.
In ogni caso, due percorsi a distanza di tre decenni sono tracciati. Dietro il primo c’era la guerra in Vietnam, dietro il secondo i primi goffi tentativi di Bill Clinton di imbrigliare le libertà digitali in America. Entrambe le invettive terminano con una certezza: la linea è tracciata dice Dylan, nessuno potrà fermare i nostri pensieri scrive Barlow. I giochi sembrano fatti. Sembrano. È come se ogni tanto, nello spazio di un paio di generazioni, la misura risultasse colma e un violento scollamento prendesse forma e coagulasse forze e intelligenze differenti. Non sono ancora passati i canonici trent’anni da allora, ma quando qualche sera fa ho ascoltato il breve discorso di Greta Thunberg all’Onu mi è parso di riconoscere i medesimi tratti. Ho rivisto la medesima potenza espressiva, la stessa contagiosa ingenuità.
Dylan canta: The line it is drawn.
Greta dice: Right here, right now, is where we draw the line.
Barlow scrive: We must declare our virtual selves immune to your sovereignty.
Greta dice: If you really understood the situation and still kept on failing to act then you would be evil.
Dylan canta: The battle is ragin’ / Will soon shake your windows / And rattle your walls / For the times they are a-changin’.
Greta dice: The word is waking up, and change is coming, whether you like or not.
Nulla, insomma, è nuovo di quello che ci sta succedendo attorno. Tutto mostra una sorta di innegabile ripetizione, perfino dentro le parole utilizzate a distanza di decenni. Per chi lo desiderasse è disponibile su un piatto d’argento la comoda critica basata su indiscutibili evidenze: tutto quello che avevamo sognato e richiesto a gran voce non si è avverato. L’ingenuità smentita ogni volta dalla brutalità dei fatti. Per quanto mi riguarda preferisco guardare a tutto questo come al segno di una indomabile vitalità, di un desiderio che ritorna, di una nuova opportunità. Quella — in definitiva — di diventare, tutti assieme, un grande cervello, come direbbe Franco Carlini, che riparte e ritenta, che fallisce e poi ricomincia da capo: che non si rassegna all’idea di non collaborare.