di Sacha Baron Cohen (linkiesta.it, 25 novembre 2019)
Il discorso di ringraziamento pronunciato dall’attore inglese a un summit a New York dell’Anti-Defamation League.
Ringrazio l’Anti-Defamation League per questo riconoscimento e per tutto quello che fa per combattere il razzismo, l’odio e l’intolleranza. E, per essere chiari, quando dico “razzismo, odio e intolleranza” non mi sto riferendo ai Labradoodle di Stephen Miller. Ora, io so che alcuni di voi staranno pensando “ma perché diavolo c’è un attore comico a parlare a una conferenza come questa?”. Esatto: sono un attore. Ho passato gli ultimi vent’anni fedele alla rappresentazione del personaggio. Ma a dire il vero questa è la pima volta che sto in piedi e tengo un discorso impersonando il mio personaggio meno popolare, cioè Sacha Baron Cohen. E, devo confessarvi, è una cosa tremenda.
So anche che la mia presenza qui può essere inaspettata per un’altra ragione. Secondo alcuni critici, i miei film rischiano di rinforzare alcuni vecchi stereotipi. La verità è invece che io, in tutta la mia vita, ho sempre – e con passione – lanciato sfide all’intolleranza e al fanatismo. Quando ero un adolescente, in Inghilterra, ho partecipato alle marce contro quei fascisti del National Front e anche per l’abolizione dell’apartheid. Quando ero all’università, sono andato in America e ho scritto la mia tesi sul movimento per i diritti civili con l’aiuto proprio degli archivi dell’Anti-Defamation League. Ho provato a utilizzare i miei personaggi per indurre le persone ad abbassare la guardia e a tirare fuori le loro vere convinzioni, pregiudizi compresi.
Ora, non starò qui a sostenere che tutto ciò che ho fatto l’ho fatto per motivazioni elevate. Lo ammetto: una buona parte dei miei film – ok, diciamo la metà dei miei film – è senza dubbio segnata da immaturità, mentre l’altra metà è del tutto puerile. Concedo: non c’è niente di illuminante – quando impersonavo Borat dal Kazakistan, il primo giornalista di fake news – nel correre nudo in una conferenza di assicuratori.
Però quando Borat riusciva a far cantare a un intero bar in Arizona cose del tipo “Lancia l’ebreo nel pozzo”, ecco: quello metteva in luce l’indifferenza delle persone nei confronti dell’antisemitismo. Oppure quando, in Arkansas – nei panni di Brüno, il reporter di moda gay dall’Austria –, mi misi a baciare un uomo durante un combattimento in una gabbia e feci scoppiare una rissa. Allora riuscii a mettere in mostra il potenziale violento dell’omofobia. E ancora quando – travestito da sviluppatore attentissimo alle questioni sociali – proposi di costruire una moschea in un villaggio di campagna, questo fece sì che uno dei residenti ammettesse: “Sì, sono razzista verso i musulmani”. Ecco, ho mostrato il grado di accettazione dell’islamofobia.
È per questo che sono grato per l’opportunità di essere qui con voi. Oggi, in tutto il mondo, ci sono demagoghi che fanno appello ai nostri istinti peggiori. E quelle teorie del complotto che una volta rimanevano confinate ai margini della società, ora sono mainstream. È come se l’Età dei Lumi – quella delle argomentazioni basate sui fatti – stesse finendo, delegittimando la conoscenza e rifiutando il consenso scientifico. La democrazia, che si basa su verità condivise, è in ritirata. E l’autocrazia, che invece dipende da bugie condivise, sta avanzando. I delitti basati sull’odio stanno crescendo, così come gli attacchi omicidi contro le minoranze religiose ed etniche. Cosa hanno in comune tutte queste tendenze pericolose? Io sono solo un attore comico, non uno studioso. Ma una cosa mi è molto chiara. Tutto questo odio, tutta questa violenza, sono agevolati da un pugno di società della Rete che costituiscono la più grande macchina di propaganda della Storia.
La più grande macchina di propaganda della Storia.
Pensateci: Facebook, YouTube e Google, Twitter e tutti gli altri raggiungono miliardi di persone. Gli algoritmi su cui sono basate queste piattaforme amplificano deliberatamente quei contenuti che permettono di mantenere coinvolto l’utente. Cioè, storie che solleticano i nostri istinti più bassi e che fanno scattare lo sdegno e la paura. È per questa ragione che YouTube consiglia miliardi di volte video come quelli di Alex Jones, il famoso cospirazionista. È per questa ragione che le fake news battono le vere notizie – lo dimostrano anche alcuni studi: le bugie si diffondono a una velocità maggiore rispetto alla verità. E non c’è alcuna sorpresa nel fatto che la più grande macchina di propaganda della Storia abbia contribuito a diffondere la più antica teoria cospirazionista della Storia: la bugia secondo cui gli ebrei siano, in qualche modo, pericolosi. Come recitava un titolo di giornale: “Pensate soltanto a cosa avrebbe potuto fare Goebbels se ci fosse stato Facebook”. Su Internet può sembrare che tutto sia valido allo stesso modo. Breitbart sembra la Bbc. La bufala dei Protocolli dei Savi di Sion equivale alla Anti-Defamation League. E le farneticazioni di un pazzo sembrano credibili quanto le scoperte di un premio Nobel. Abbiamo perso, a quanto pare, la percezione condivisa dei fatti fondamentali su cui poggia una democrazia.
Quando io, impersonando l’aspirante gangsta Ali G, chiedevo all’astronauta Buzz Aldrin “Ehi fratello, come era camminare sul Sole?”, la battuta faceva ridere perché noi, il pubblico, eravamo d’accordo su alcune nozioni di base. Se credi che l’allunaggio sia una bufala, allora la battuta non funziona più. Quando Borat va in un bar in Arizona per mettere tutti d’accordo sul fatto che “Gli ebrei controllano i soldi di tutti e non li restituiscono mai”, la battuta faceva ridere perché il pubblico condivideva l’idea che la rappresentazione degli ebrei come avari è, anche questa, una teoria del complotto, nata nel Medioevo. Ma quando, grazie ai social media, i complottismi prendono terreno, è più facile per i gruppi che si basano sull’odio trovare nuove reclute. È più facile per gli agenti di servizi segreti stranieri interferire nelle nostre elezioni, ed è più facile per un Paese come il Myanmar portare avanti un genocidio contro i Rohingya.
È effettivamente incredibile notare quanto sia immediato passare dal pensiero complottista alla violenza. Nella mia serie televisiva Who is America? ho incontrato un tizio normale, istruito, che aveva un bel lavoro ma che, sui social, ripeteva molte delle teorie del complotto che il presidente Trump, su Twitter, aveva diffuso più di 1.700 volte verso i suoi 67 milioni di follower. Il presidente ha perfino twittato, una volta, che stava pensando di includere gli Antifa – anti-fascisti che marciavano contro la Destra estrema – nella lista delle organizzazioni terroristiche. Per cui, travestito da esperto di anti-terrorismo israeliano, il Colonnello Erran Morad, ho raccontato alla persona con cui parlavo che nella Women’s March di San Francisco gli Antifa stavano complottando per inserire ormoni nei pannolini dei neonati per “farli diventare transgender”. E ci ha creduto. Gli ho spiegato come piazzare dei piccoli dispositivi su tre persone innocenti che partecipavano alla marcia e gli ho anche detto che, schiacciando un bottone, si sarebbe innescata una esplosione che li avrebbe uccisi tutti. Non era vero esplosivo, naturalmente, ma il tizio con cui parlavo ci ha creduto. Ho voluto andare a vedere: lo avrebbe fatto? La risposta è stata sì. Ha schiacciato il bottone. Era convinto di avere davvero ucciso tre persone.
Voltaire aveva ragione: “Chi riesce a farvi credere cose assurde può anche farvi commettere cose atroci”. E i social media permettono ai despoti di diffondere assurdità su miliardi di persone. A loro difesa va detto che queste società hanno fatto dei passetti per ridurre l’odio e le teorie del complotto sulle loro piattaforme, ma si tratta di misure superficiali. Io oggi faccio questa denuncia perché credo che le nostre democrazie pluraliste siano sull’orlo del baratro. E penso che i prossimi 12 mesi, e i social media, saranno determinanti. Gli elettori inglesi andranno a votare e nel frattempo i cospirazionisti continueranno a portare avanti la loro terribile teoria della “sostituzione etnica”, secondo cui i cristiani bianchi stanno venendo rimpiazzati da immigrati musulmani attraverso un disegno preordinato. Gli americani sceglieranno il loro futuro presidente, e nel frattempo orde di troll e di bot perpetueranno la bugia disgustosa di una “invasione latina”. E dopo anni di video su YouTube che parlano del cambiamento climatico come se fosse una bufala, gli Usa hanno intrapreso il percorso per uscire ufficialmente dagli Accordi di Parigi.
È tutta una sentina di intolleranza e di spregevoli teorie del complotto che minacciano sia la nostra democrazia sia il nostro pianeta. Questo non può essere ciò che avevano in mente i creatori di Internet. Credo che sia giunto il momento per un ripensamento, fin dalle radici, dei social media, e del fatto che aiutino a diffondere odio, cospirazioni e bugie. Il mese scorso, tuttavia, Mark Zuckerberg di Facebook ha fatto un importante discorso che – nessuna sorpresa – metteva tutti in guardia contro le nuove leggi e i nuovi regolamenti pensati per aziende come la sua. Bene: alcune delle sue argomentazioni sono semplicemente assurde. Diamogli un’occhiata.
Primo. Zuckerberg ha provato a tratteggiare tutta la questione come se riguardasse “scelte… sulla libertà di espressione”. Che è ridicolo. Qui non si tratta di limitare la libertà di parola di nessuno. Qui il problema è che si dà a tutte le persone, comprese le più deplorevoli del mondo, la più grande piattaforma mai vista nella Storia, che permette di raggiungere un terzo del pianeta. La libertà di parola non è libertà di raggio d’azione. Purtroppo ci saranno sempre razzisti, misogini, antisemiti e molestatori di bambini. Ma io credo che tutti possiamo essere d’accordo sul fatto che non dobbiamo dare agli intolleranti né ai pedofili una piattaforma libera che permetta loro di amplificare le loro visioni della realtà e prenda di mira le vittime.
Secondo. Zuckerberg ha affermato che mettere nuovi limiti sui contenuti dei post sarebbe “un passo indietro della libertà di espressione”. Che è una totale assurdità. Il primo emendamento dice che “Il Congresso non farà leggi” che andranno a ledere la libertà di parola, tuttavia questo non vale per i business privati come Facebook. Non stiamo chiedendo a queste aziende di determinare il perimetro della libertà di parola nella società. Vogliamo soltanto che siano responsabili di ciò che viene messo sulle loro piattaforme. Se un neonazista entra in un ristorante facendo il passo dell’oca e comincia a minacciare gli altri clienti dicendo che vuole ammazzare gli ebrei, il proprietario dovrebbe essere obbligato a fornirgli un elegante pasto di otto portate? Certo che no! Il proprietario del ristorante ha ogni diritto legale, compresi gli obblighi morali, di cacciarlo fuori a pedate. E lo stesso vale per le aziende della Rete.
Terzo. Zuckerberg, a quanto pare, mette sullo stesso piano la regolamentazione di aziende come la sua con le azioni che avvengono “nelle società più repressive”. Incredibile. Soprattutto perché detto da una delle sei persone che decide quali informazioni gran parte del mondo possa vedere o no. Zuckerberg di Facebook, Sundar Pichai di Google, Larry Page e Sergey Brin della sua azienda ombrello Alphabet, la ex cognata di Brin, Susan Wojcicki di YouTube e Jack Dorsey di Twitter. I Silicon Six – tutti miliardari, tutti americani –, il cui vero obiettivo è accrescere il prezzo delle loro azioni e non proteggere la democrazia. Questo è imperialismo ideologico: sei individui, non eletti, della Silicon Valley, che impongono le loro visioni sul resto del mondo, che non devono rendere conto a nessun governo, che agiscono come se fossero al di sopra della legge. Come se stessimo rivivendo i tempi dell’impero romano e Mark Zuckerberg fosse Cesare. Questo, almeno, spiegherebbe il suo taglio di capelli. Ecco un’idea, allora. Anziché permettere ai Silicon Six di decidere il destino del mondo, facciamo che i nostri rappresentanti eletti, scelti dal popolo, di tutte le democrazie del mondo, riescano a dire qualcosa.
Quarto. Zuckerberg parla di accogliere la “varietà delle idee” e l’anno scorso ce ne ha dato un esempio. Ha dichiarato di aver trovato i post che negavano l’Olocausto “profondamente offensivi”, ma non ha pensato che Facebook dovesse toglierli “perché io credo che ci sono cose che persone diverse considerano sbagliate”. In questo momento, insomma, ci sono negazionisti dell’Olocausto su Facebook e Google ti porta ai peggiori siti di negazione dell’Olocausto con un semplice clic. Uno dei capi di Google mi ha detto, una volta, incredibilmente, che questi siti mostrano “entrambe le facce” di una questione. Questa è pura follia. Per citare Edward R. Murrow, “non si può accettare che ci siano, in ogni storia, due parti equivalenti e logiche di una questione”. Ci sono milioni di prove sull’Olocausto. È un fatto storico. E negarlo non è una forma di opinione a caso. Quelli che lo fanno vogliono porre le basi per farne uno nuovo. Eppure, Zuckerberg dice che “sono le persone che devono decidere cosa è credibile, non le società del tech”. Ma in un periodo storico in cui due terzi dei millennial dicono di non avere mai sentito parlare di Auschwitz, come potrebbero sapere cosa sia “credibile” e cosa non lo sia? Come potrebbero sapere che quella bugia è, in effetti, una bugia? Esiste la verità oggettiva. I fatti ci sono. E se queste aziende di Internet davvero vogliono fare la differenza, devono assumere dei sorveglianti che facciano davvero quello che sono chiamati a fare: sorvegliare, lavorare con gruppi come l’Anti-Defamation League, insistere sulla verità dei fatti ed eliminare dalle rispettive piattaforme tutte quelle bugie e quelle teorie cospirative.
Quinto. Quando si discute sulla difficoltà di rimuovere i contenuti, Zuckerberg ha chiesto: “Dove si segna la linea?”. Sì, segnare la linea può essere difficile. Ma quello che dice davvero è un’altra cosa: mettersi a rimuovere le falsità dalla Rete è troppo costoso. Queste sono le aziende più ricche del mondo. E hanno i migliori ingegneri del mondo. Potrebbero, se volessero, risolvere tutti questi problemi. Twitter potrebbe utilizzare un algoritmo che toglierebbe l’hate speech dei suprematisti bianchi, ma non lo fa perché, a quanto pare, rischia di buttar fuori qualche politico molto importante. Forse non sarebbe così male!
La verità è che queste aziende non cambieranno mai veramente perché il loro intero business model è basato sul generare più engagement dell’utente, e niente lo riesce a fare meglio delle bugie, della paura e dello sdegno. È venuto il momento di chiamare queste società con il loro vero nome: sono i più grandi editori della Storia. Ed ecco un’idea anche per loro: attenetevi agli standard e alle prassi fondamentali dei giornali, dei magazine e delle notizie televisive. Abbiamo standard e prassi sia per la televisione sia per i film. Ci sono cose che si possono dire e altre che non si possono dire. In Inghilterra, per esempio, mi dissero che Ali G non poteva dire parolacce se andava in onda prima delle 9 della sera. Qui negli Usa, la Motion Picture Association of America regola e dà valutazioni su ciò che vediamo. Alcune scene dei miei film sono state tagliate o ridotte proprio per venire incontro a questi standard. E se ci sono standard e pratiche per ciò che i canali del cinema e della televisione possono o non possono mostrare, allora senza dubbio anche aziende che pubblicano contenuti destinati a miliardi di persone dovrebbero adattarsi, anche loro, a certi standard e a certe pratiche.
Consideriamo la questione delle inserzioni politiche. Per fortuna Twitter le ha bandite, alla fine. Google sta mettendo a punto dei cambiamenti. Ma se le paghi, Facebook invece pubblicherebbe qualsiasi inserzione “politica” tu gli chieda, anche se è falsa. E ti aiuterà perfino a micro-targettizzarla per ottenere dagli utenti il massimo effetto. Usando questa logica distorta, se Facebook fosse esistito negli anni Trenta avrebbe permesso a Hitler di postare spot di 30 secondi sulla sua “soluzione” per “il problema degli ebrei”. Per cui, ecco un buon standard e una buona prassi: Facebook, comincia a verificare la verità delle inserzioni a carattere politico prima di farle girare, smetti di microtargettizzarle subito e quando si capisce che sono false restituisci i soldi e non pubblicarle.
Ecco un’altra buona cosa da fare. Rallentare. Ogni post non deve essere pubblicato subito. Come ha detto una volta Oscar Wilde, “viviamo in un’epoca in cui le cose non necessarie sono le nostre uniche necessità”. Ma chiediamoci: pubblicare subito online ogni video o ogni pensiero, anche se è razzista o criminale o perfino omicida, è davvero una necessità? Certo che no. E quello che ha fatto una sparatoria contro un gruppo di musulmani in Nuova Zelanda ha messo tutto in streaming su Facebook, da dove il video ha cominciato a girare in tutta la Rete ed è stato visto milioni di volte? Era uno snuff movie, portato al pubblico dai social media. Perché allora non può esserci un ritardo nella pubblicazione, in modo che schifezze del genere, che creano solo traumi, possano essere prese e bloccate prima ancora che vengano postate?
Alla fine, Zuckerberg ha detto che le aziende dei social media dovrebbero “essere all’altezza delle loro responsabilità”, ma è rimasto completamente zitto su ciò che dovrebbe succedere qualora non lo fossero. Per ora è piuttosto chiaro che non ci si può aspettare che si auto-regolamentino da sole. Come per la Rivoluzione industriale, è tempo di una regolamentazione e di una legislazione che sappia contenere l’avidità di questi padroni del vapore hi-tech. In qualsiasi altra industria, un’azienda può essere ritenuta responsabile quando il prodotto che propone ha dei difetti. Quando i motori esplodono, o le cinture di sicurezza non funzionano bene, le aziende che producono automobili richiamano decine di migliaia di veicoli, perdendo miliardi di dollari. Sembra semplicemente ovvio dire a Facebook, YouTube e Twitter: il vostro prodotto è difettoso, siete obbligati a ripararlo, non importa quanto vi costerà e non importa quanti moderatori avrete bisogno di impiegare. In qualsiasi altra industria si può essere denunciati per il danno che si provoca.
Gli editori possono essere querelati per diffamazione, le persone possono essere messe a processo per ingiurie. Io stesso sono stato denunciato un sacco di volte. Anche adesso, c’è una persona che mi sta querelando – di cui non dico il nome perché potrebbe querelarmi di nuovo. Ma le aziende dei social sono ampiamente esentate dalla responsabilità sui contenuti che i loro utenti pubblicano, e non importa quanto gravi siano, da parte della Sezione 230 del – preparatevi – Communications Decency Act. Assurdo.
Per fortuna che, adesso, le aziende della Rete possono venire considerate responsabili per i pedofili che usano i loro siti per prendere di mira i bambini. Dico io, facciamo sì che queste aziende lo siano anche per coloro che utilizzano i loro siti per difendere chi ha provocato stermini di massa di bambini per le loro idee e la loro religione. Forse le multe non sono abbastanza. Forse è giunto il momento di dire a Mark Zuckerberg e ai Ceo delle altre aziende: avete già permesso a una potenza straniera di interferire con le nostre elezioni, avete già reso più semplice un genocidio in Myanmar, fatelo ancora e andrete in galera.
Alla fine, tutto si riassume in una domanda: che tipo di mondo vogliamo? Nel suo discorso, Zuckerberg ha detto che uno dei suoi obiettivi principali è di “sostenere una definizione di libertà di espressione la più ampia possibile”. Eppure le nostre libertà non sono soltanto un fine in sé, ma sono intese anche come mezzo per un altro fine, come dite voi qui negli Usa, il diritto alla vita, alla libertà, e alla ricerca della felicità. Ma oggi questi diritti sono minacciati dall’odio, dal complottismo e dalle bugie.
Permettetemi di lasciarvi con un suggerimento per un obiettivo diverso per la società. Il fine ultimo di una società dovrebbe essere assicurarsi che le persone non siano prese di mira, non siano molestate, non siano uccise a causa di ciò che sono, della loro provenienza, delle persone che amano e del modo in cui scelgono di pregare. Se noi facciamo diventare questo il nostro obiettivo, cioè se diamo la priorità alla verità rispetto alle falsità, alla tolleranza e non al pregiudizio, all’empatia e non all’indifferenza, e agli esperti e non agli ignoranti, allora forse, e dico forse, potremo fermare la più grande macchina di propaganda della Storia. Potremo salvare la democrazia, potremo avere ancora uno spazio per la libertà di espressione e per la libertà di parola. E, cosa ancora più importante, le mie battute faranno ancora ridere.
Grazie mille a tutti.