di Andrea Coccia (linkiesta.it, 12 luglio 2018)
Che Matteo Salvini, ministro dell’Interno, abbia tentato di impedire a una nave della guardia costiera italiana, battente bandiera italiana, di attraccare in un porto italiano, è un fatto che, qualche anno fa, non avremmo creduto possibile nemmeno nella peggiore barzelletta. Se poi ci aggiungiamo che il suddetto ministro, non contento del paradosso escheriano innescato col suo rifiuto, se la prenda con i 67 disperati che ci stanno avendo il mal di mare dentro prendendoli pure per il culo sulla decina di guerre — verissime per il mondo, inventate per Salvini — da cui scappano, la cosa avrebbe preso pieghe ancora meno credibili.Eppure, che ci piaccia o no, è con questo che ci siamo abituati a convivere ogni giorno. Un pezzo alla volta, un tweet alla volta, una boiata dietro l’altra e ci siamo trovati in un mondo dove la comunicazione e le sue regole — che poi è una sola: vale tutto —, con buona pace di Machiavelli, ha stravolto la politica facendola diventare un contest di pubblicità di merendine. Nessun obiettivo dichiarato, solo vendere più dei concorrenti. Non importa che in quei 12 Paesi elencati da Salvini ci siano realmente guerre da cui quei 67 disperati stanno realmente cercando di scappare. Esattamente come, un paio di giorni prima, gli elettori del Pd misuravano i loro leader, Renzi e Martina, dal numero di utenti che seguivano le loro relazioni live sui social. E chi se ne frega di cosa stava dicendo Renzi e di cosa aggiungeva Martina. Chi se ne catafotte di tutto, ormai. Berlusconi ci provò con il predellino. Mussolini, più old school, si faceva bastare un balcone e una piazza affollata. Oggi a Salvini, come a Trump, a Renzi, a Macron e a tutti gli altri, bastano un device e una connessione e la piazza ce l’hanno già pronta e calda in mano. È una piazza virtuale molto più estesa e pullulante di quelle che ululavano alle berciate dei politicanti novecenteschi, ma soprattutto non ascolta più. Il risultato lo conosciamo bene: un diagramma comunicativo completamente impazzito, senza né capo né coda; una politica che vive dei cinque minuti di celebrità in cerca di attenzione istantanea, che non si preoccupa di analizzare, men che meno risolvere, conflitti, rabbie e rancori, ma che al contrario vive per farli lievitare, perché è su quello e sui like che si misura il loro successo. Ma se pensate che tutto ciò stia succedendo perché i social sono cattivi, perché Mark Zuckerberg è un rettiliano che vuole dominare il mondo e fregarvi la vostra privacy spiandovi ogni minuto o perché si stava meglio quando si stava peggio occhio, perché non siete proprio sulla strada giusta. Tutto ciò sta succedendo perché abbiamo accettato il cambio di paradigma e l’abbiamo accettato con sollievo: la politica delle piazze era troppo faticosa. Ci si sporcava, si sudava, si finiva col puzzare. Ogni tanto ci si sparava pure. Ci si poteva far male, in piazza. E allora perché non accettare di buon grado una politica da poltrona, trasformando il pollice opponibile in pollice scorrevole, giocando a una politica le cui regole non sono più agire su un mondo sempre più imbizzarito, ma cavalcarlo sghignazzando di follia e agitando il cappello come il generale Kong, nel Dottor Stranamore, cavalca l’atomica in attesa dell’impatto. Ce le meritiamo le dirette Facebook.