di Cesare Martinetti (lastampa.it, 15 gennaio 2024)
Secondo il rapporto del sergente Dorotov, «il soldato Arkadij Michajlovič Antonov aveva preso posto su una sedia, sul lato destro del sarcofago… Alle 3:35 ha riferito che Lenin ha aperto gli occhi e ha rivolto uno sguardo al soffitto… Ho constatato lo stato di tensione del giovane. Si suggerisce il suo isolamento per evitare la diffusione di dicerie e menzogne che potrebbero nuocere gravemente alla conservazione del cadavere».
Era il 18 novembre 1941, Tjumen, Siberia occidentale, dove da luglio, nell’anfiteatro dell’Accademia di Agricoltura, si trovava il cadavere più famoso del mondo, scortato da ottanta militari e accudito da otto medici. A nessuno di loro era permesso lasciare l’edificio. Al centro dell’anfiteatro un tavolo operatorio coperto da un panno bianco e accanto il sarcofago di vetro con la salma di Lenin, già trattata con un segretissimo processo di imbalsamazione e regolarmente intrattenuta con bagni di glicerina. I medici si alternavano di giorno in un’assistenza continua, di notte due soldati montavano la guardia. Lenin non è mai rimasto solo. Non accadde mai niente, fino a quando il soldato semplice Antonov chiese di parlare con il sergente Aleksej Ivanovic Dorotov e di raccontargli il miracolo di cui era stato testimone.
Sembra un romanzo ed in effetti è così. S’intitola L’ultimo viaggio di Lenin (Neri Pozza), l’ha scritto Francesco Pala, professore di Filosofia e Storia a Nuoro, attingendo al surreale della letteratura russa. Per salvare il corpo di Lenin dalla IV Armata tedesca, il sergente Dorotov, insieme al soldato visionario Antonov, caricano su un vecchio camion la preziosa reliquia e la trasferiscono in un luogo imprecisato del Grande Nord, dove intorno alla mummia viene fondata la Repubblica Popolare di Leninesia, punto estremo del progresso comunista certificato dal buono stato di conservazione del cadavere. È tutta opera di fantasia, precisa l’autore. Ma chi lo sa?
Le spoglie mortali del capo bolscevico vennero effettivamente trasferite a Tjumen per ordine di Stalin quando si temeva che i nazisti avrebbero potuto arrivare a Mosca e mettere le mani sul feticcio più sacro e simbolico della Rivoluzione. La cara salma è poi tornata nel mausoleo della Piazza Rossa subito dopo la guerra, dov’è tuttora, sotto le mura del Cremlino e lo sguardo di Vladimir Putin che, però, non è mai stato molto affettuoso con il suo predecessore, tiepidamente rievocato anche nel centenario del ’17. Quel corpo resta, tuttavia, il più intoccabile dei tabù. Solo nel 1993, dopo il golpe parlamentare dell’ultimo Soviet Supremo, spento a cannonate da Boris El’cyn, si parlò seriamente di inumarlo, come avrebbe voluto lui stesso. Non se ne fece niente. Rimossi i due militari in alta uniforme, vennero messi a piantonare il mausoleo due semplici vigili urbani, e il “posto di guardia numero 1” venne trasferito nei vicini Giardini di Alessandro, dove arde la fiamma del soldato ignoto.
Vadimir Il’ic Ulianov, detto Lenin, è morto alle 18:50 del 21 gennaio 1924 a Gorki, trenta chilometri a Sud di Mosca. Aveva appena cinquantaquattro anni, da due era semiparalizzato e demente, probabilmente a causa della sifilide. Quel corpo così fiaccato e sfigurato, ingombrante eppure necessario, era destinato diventare la reliquia simbolica di un Paese e di un’idea che come nessun’altra ha attraversato le rivoluzioni del Novecento. La “gestione” di quel corpo è diventata fin dalle prime ore carne viva per l’affermazione del clan dirigente dell’Unione Sovietica. Inutilmente dalla rivista Lef di Vladimir Majakovskij si levò l’appello “Non fate commercio di Lenin”, mentre sui giornali già era comparsa la pubblicità di busti del defunto. Declinato in varie sfumature, si diffuse un mantra ambiguo: “Lenin, vive!”. Anzi, è “il più vivo tra i vivi”. E sembrava evocare l’annuncio dell’angelo alle pie donne che cercavano la tomba di Gesù: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo?» (Vangelo di Luca).
Vivo o non vivo, quel corpo, arrivato all’alba del 23 gennaio alla stazione Paveleckaja di Mosca, era stato accolto dallo stato maggiore del partito: Molotov, Stalin, Kalinin, Kamenev, Bucharin. Tutti a capo scoperto nonostante i 28 gradi sottozero. Mancava solo Trockij, inviato in Georgia su probabile depistaggio di Stalin. Per tre giorni e quattro notti, cinque milioni di persone sfilarono davanti al feretro nella Sala delle colonne della Casa dei sindacati, decorata con palme e vegetazione varia. Ventiquattro artisti (i migliori) furono incaricati di ritrarre la solennità del momento. Ottocentoventuno corone di fiori segnavano il percorso del corteo fino alla Piazza Rossa. La bara venne portata a spalle da sei operai.
«Una scenografia mirabolante» scrive Giampiero Piretto – grande studioso di cultura e fenomenologia russa, nel saggio L’ultimo spettacolo (Raffaello Cortina) –, nella quale gli spettatori diventavano parte della drammaturgia sociale del lutto messa in scena dal potere. Un atto di «appropriazione del corpo di Lenin da parte del partito, come la rimozione del cervello, e la sua esibizione pubblica, l’imbalsamazione e l’esposizione nel mausoleo costruito sulle fosse comuni delle vittime della rivoluzione nella Piazza Rossa, sotto le mura del Cremlino». A volere più di tutti l’imbalsamazione del cadavere fu sicuramente Stalin, che dando vita al culto di Lenin già pianificava il suo. Contro il parere della vedova Nadezda Krupskaja e di una parte del Politburo; a cominciare da Trockij, che lo considerava un delirio cripto-religioso che avrebbe riportato la Russia al suo passato bigotto e superstizioso.
Ma c’era di più. E cioè la fiducia nella nuova scienza sovietica che s’innestava sul filone di cosmisti e transumanisti russi, come ha raccontato il filosofo Michel Eltchaninoff (Lenin ha camminato sulla Luna, Edizioni e/o) citando Leonid Krassin, uno degli uomini più vicini a Lenin: «Sono certo che ci sarà un tempo in cui la scienza sarà capace di riportare in vita i combattenti per la liberazione dell’umanità». Per adesso non è successo. Racchiuso in quel mausoleo, Lenin – o il suo fantoccio, come da anni si sospetta – appare oggi il più morto tra i morti. Ma, come nel romanzo di Pala, chi può dire che il suo vero corpo non giaccia ibernato nel ghiaccio artico, custodito da una comunità di fedelissimi che attendono la sua resurrezione?