di Paolo Mossetti (esquire.com, 21 luglio 2023)
Il calciatore Jordan Henderson, per dodici stagioni centrocampista del Liverpool, ha sempre difeso i diritti della comunità Lgbt+, al punto da diventarne una vera bandiera. In questi giorni, però, le organizzazioni per la difesa delle minoranze sessuali sono in preda allo sconcerto: il loro Football Ally preferito avrebbe accettato di giocare per l’Al-Ettifaq, club saudita allenato dalla legenda Steven Gerrard, che gli quadruplicherebbe lo stipendio, facendogli percepire oltre 40 milioni di euro l’anno.
Un salario elargito da uno Stato dove gli atti omosessuali consensuali sono considerati illegali e – scusate se è poco – possono essere puniti con la fustigazione o addirittura la pena di morte. Dove, inoltre, alle donne è stato solo da poco concesso di guidare l’automobile. Il trasferimento shock del capitano dei Reds è solo l’ultimo capitolo di un imponente piano centralizzato, sostenuto ai più alti livelli in Arabia Saudita e finanziato dal cospicuo fondo sovrano del regno, con l’obiettivo di rendere la lega calcistica nazionale del Paese una meta ambita per i migliori talenti, trasformandola da un evento insignificante a uno proiettato sulla scena calcistica globale. Un piano che i club sauditi stanno realizzando avvicinando non solo uno dopo l’altro giocatori ancora nel pieno della capacità sportive, ma offrendo loro alcuni degli stipendi più spaventosi mai visti nel calcio. Per realizzare questa ambizione, i club sauditi stanno avvicinando giocatori disposti a trasferirsi nel regno, offrendo loro alcuni dei salari annuali più elevati mai visti nello sport. Questi affari potrebbero richiedere oltre un miliardo di dollari solo per gli stipendi di circa venti giocatori stranieri.
Cristiano Ronaldo, unitosi nell’inverno di quest’anno al club Al-Nassr per quasi 200 milioni di dollari a stagione, è stato l’apripista. A circa un semestre dall’arrivo del cinque volte Pallone d’Oro, l’Al-Nassr non è andato oltre il secondo posto in campionato, ma per i padrini della Saudi Premier League la sola presenza del portoghese è stata una vittoria: l’attenzione sulla lega è stata senza precedenti e dopo Ronaldo sono arrivati, questa estate, il fresco vincitore del Pallone d’oro Karim Benzema, Ruben Neves, N’Golo Kante, e l’ex laziale Sergej Milinković-Savić, all’apice della carriera. Seguendo implicitamente il modello di draft della Nba statunitense, la lega saudita sta valutando la possibilità di coordinare ulteriori ingaggi milionari in modo tale da distribuire il talento più equamente tra le squadre più forti, così da non creare squilibri come quelli creati – paradossalmente – dai fondi sovrani delle monarchie del Golfo nei campionati europei, dove a farla da padrone sono ormai poche squadre totalizzanti: il Manchester City in Inghilterra o il Paris Saint-Germain in Francia sono gli esempi più vistosi.
L’obiettivo del progetto, che arriva dopo una sorprendente prestazione dell’Arabia Saudita alla Coppa del Mondo dello scorso anno in Qatar, non è tanto quello di rendere la League pari alla Premier League inglese o alla Liga, ma di aumentare l’influenza saudita nel mondo dello sport, e forse potenziare la sua candidatura a ospitare il Mondiale del 2030. Riyadh desidera così tanto la competizione da essere disposta, secondo un’inchiesta del sito Politico, a «coprire completamente i costi» dell’organizzazione per Grecia ed Egitto, inclusa la costruzione di interi stadi ex novo. In cambio, il 75 per cento del grande torneo a 48 squadre si svolgerebbe nel Paese del Golfo. Non è chiaro se l’offerta sia stata accettata, mai i tre Paesi stanno lavorando a una proposta congiunta e la Grecia non ci sta facendo una grande figura. Qualcuno però, in fissa col «multipolarismo», potrebbe dire è un nuovo inizio per una proiezione mediterranea della volontà di potenza economica dei Paesi non allineati al consenso occidentale.
Il megaprogetto dei sauditi ha un precedente: la Cina che, dieci anni, fa cercò il suo posto nel calcio mondiale attraverso una serie di acquisizioni di alto profilo. Di questo piano ambizioso, segnato da problemi contrattuali, crisi economiche e dalla pandemia, non è rimasto che un fallimento. Ma anche i piani della lega saudita per diventare la principale competizione domestica in Asia potrebbero essere soggetti ai capricci degli emiri. Secondo il New York Times sarà la lega stessa, e non i singoli club, a gestire centralmente i trasferimenti dei giocatori e a decidere in quali squadre assegnarli. Un modello simile a quello utilizzato dalla Major League Soccer quando ha costruito la sua presenza a livello globale. Una differenza importante rispetto all’Europa e all’America Latina, dove i club agiscono in modo indipendente (e talvolta, senza alcuna protezione statale, vengono rilevati da onnipotenti entità finanziarie).
L’iniezione di finanziamenti da parte del Public Investment Fund di Riyadh, già proprietario del Newcastle, è l’ovvio e più grande incentivo a scegliere una competizione che ricorda un Colosseo costruito nel deserto, con gladiatori costruiti a tavolino. Ma per alcuni calciatori musulmani che si avvicinano alla fine della carriera, come Benzema, sembrerebbe la religione a giocare un ruolo allettante: «Sono musulmano ed è un Paese musulmano. Ho sempre voluto vivere lì» ha detto l’ex stella del Real Madrid, vincitore di cinque Champions League. «Il trasferimento mi permetterà di avere una nuova vita… La Mecca è molto vicina e, come credente, è importante per me. È qui che mi sentirò al mio meglio e nel mio elemento». Un altro francese, N’Golo Kanté, si unirà con Benzema all’Al-Ittihad. Altri calciatori musulmani, come Riyad Mahrez del Manchester City, Hakim Ziyech del Chelsea e Yassine Bounou del Siviglia, sono in odore di trasferimento.
Spiegare l’ok ai sauditi con la fede può funzionare bene con il pubblico della nazione ospitante, e con alcuni tifosi musulmani conservatori in Occidente. Del resto il Mondiale in Qatar dello scorso anno, il primo in un Paese musulmano, è stato acclamato da quei tifosi stanchi delle ubriachezze e degli eccessi euro-atlantici come un modello per giocare al calcio immersi nella preghiera, esposti alla cultura islamica e lontano dall’alcool (tranne che negli alberghi extra-lusso, ovvio). Tanti altri in Occidente resteranno perplessi di fronte alla perdita di attrazione dei propri santuari sportivi e del proprio blasone, verso un equilibrio di potenze che si sposta sempre più a Est e verso l’Equatore. Ma lo sconvolgimento, e la preoccupazione, derivano anche dal fatto che i propri beniamini sportivi abbiano accettato di favorire questo riequilibrio sostenendo un regime che regolarmente è al vertice delle classifiche globali delle condanne a morte, e che nei fondamentali della vita quotidiana favorisce il consumismo e l’avarizia tanto quanto il vecchio mondo unipolare che sta tramontando.