di Giuseppe Fantasia (huffingtonpost.it, 21 settembre 2020)
Con il passare degli anni il carattere di una persona non cambia, ma può sicuramente ammorbidirsi e trovare un suo equilibrio. A uno come Antonio Scurati – che non è mai passato come un gran simpaticone della letteratura – è successo a cinquant’anni. È diventato padre e lo scorso anno con M. Il figlio del secolo (Bompiani), primo libro di una trilogia dedicata al fascismo e a Benito Mussolini, ha vinto il Premio Strega arrivando a cinquecentomila copie vendute soltanto in Italia, a ben quaranta traduzioni nel mondo e una serie che presto vedremo in tv. Il 23 settembre torna in libreria con il secondo volume, M. L’uomo della provvidenza, che riprende da lì dove ci aveva lasciati, dopo il delitto Matteotti, raccontando gli anni che vanno dal 1925 al 1932, quelli del regime e della dittatura.«Credo che per uno scrittore raggiungere la maturità artistica sia forse il traguardo più importante» ci spiega quando lo incontriamo a Pordenonelegge, la festa del libro con gli autori, la prima post Covid-19. «Dismettere un po’ di quell’arroganza e tracotanza, risse e furia polemica che ti ha caratterizzato e sostenuto anche durante la fase giovanile» aggiunge «aiuta a raggiungere una maturità anche artistica». «La maturità» continua Scurati, laureato in Filosofia nonché professore di Scrittura creativa allo Iulm di Milano, «è un’altra grande idea del secolo scorso morta nel presente. Viviamo in un universo in cui le uniche realtà della vita che vengono celebrate sono la gioventù e l’infanzia, talvolta in maniera ossessiva e smodata».
Ci faccia degli esempi.
«Quest’estate abbiamo assistito allo spettacolo di settantenni e ottantenni che vivono ancora una vita da balera e vogliono ergersi anche a maestri di vita, non si sa però a che titolo. Abbiamo visto poi personaggi che trovo di una tristezza sconfinata, ad esempio Flavio Briatore, ma trovo ancora più triste che grandi quotidiani nazionali riportino loro notizie, fesserie e interviste. Credo che in una società che tende a sopravvalutare come valore esclusivo la giovinezza e l’infanzia, la maturità resti un traguardo da perseguire. La maturità creativa è per me legata a una progressiva distanziazione da certe forme di oltranza, di tracotanza, di arroganza e combattività polemica che sono tipiche della giovinezza, di cui io – sicuramente – non ho lesinato».
È andato a votare per il referendum sul taglio dei parlamentari?
«Non sono andato a votare non solo perché sono qui a Pordenone, ma perché influenzato da questi lunghi anni di immersione nel periodo fascista. Non entro nel merito della riduzione del numero dei parlamentari, ma ho visto in questo referendum – nel modo in cui è stato promosso e nei tanti balletti che la politica e i vari partiti hanno fatto attorno ad esso – il portato di quella violenza polemica anti-parlamentarista che fu caratteristica del fascismo stesso prima della conquista del potere, ma anche dei movimenti populisti italiani degli ultimi anni e decenni. Questa origine nella polemica anti-parlamentare mi ha tenuto quindi lontano dalle urne. Chiunque polemizzi in democrazia in maniera dura, ideologica e faziosa contro il Parlamento lo considero pericoloso».
A proposito di populismo, c’è chi ha ravvisato elementi di somiglianza con il fascismo: è d’accordo?
«Al di là delle mie intenzioni, ho ripetuto varie volte ormai che molti lettori del mio primo libro, italiani e non, hanno ravvisato elementi di somiglianza non tra il fascismo e i cosiddetti movimenti populisti di oggi – perché su quel piano ci sono molte differenze e dissomiglianze, tipo l’uso sistematico della violenza fisica che i fascisti facevano e i populisti odierni no –, ma una somiglianza con Mussolini; non perché fondatore del fascismo, ma in quanto fondatore di una tipologia di leader che oggi noi definiamo populista. In questo c’è sicuramente una linea di discendenza ben visibile, anche se è una linea di filiazione politica diversa. Molti di questi leader odierni, non solo italiani, pur non discendendo in alcun modo da una cultura politica di tipo fascista, mettono in atto quel tipo di seduzione e di leadership di cui Mussolini fu addirittura l’inventore».
Il fascismo persiste e non è morto nel carattere degli italiani: è attuale o qualcosa che si rinnova nel tempo?
«Io resto un romanziere. Questo secondo volume ha come sottotitolo L’uomo della provvidenza. In quel sottotitolo abbiamo una conferma di quanto lei mi chiede. Non so in che misura gli italiani subiscano questa fascinazione diretta del fascismo storico; sono certo, però, che molti italiani non hanno smesso nel secolo che ci siamo lasciati alle spalle e ancora oggi di attendere l’uomo della provvidenza. Qui abbiamo un’altra costante del carattere nazionale: questa disperata, spasmodica e vana attesa dell’“uomo della provvidenza”, definizione che – come molti sanno – a Mussolini diede il Papa. I nostri leader politici vengono ancora oggi pensati così, come uomini della provvidenza. Alcuni di loro, addirittura, ancora viventi, si sono definiti così, addirittura “unti del Signore”».
Questo cosa denota?
«Uno stato di minorità della democrazia. È un’attesa vana, perché leggendo il libro scoprirete che la prima grande delusione rispetto a questa lunga attesa dell’uomo della provvidenza la diede proprio Mussolini. Uno dei nodi del romanzo è questo: lui deluse l’aspettativa di un leader provvidenziale investito addirittura dal Papa non solo per il male che fece, ma anche per ciò che non fece. Non si dimostrò all’altezza di esserlo. Una delusione che, nel tratteggiare il profilo politico e psicologico del personaggio in questo secondo volume, è evidente in lui. Pure nel momento del trionfo, dell’apoteosi del fascismo, c’è una grande malinconia. Lui per primo si rese conto di non riuscire a mantenere le promesse di cambiare il Paese, di modernizzarlo, di cambiare gli italiani. Questo, credo, è forse uno degli aspetti più interessanti e attuali».
Nel libro troviamo per la prima volta un Mussolini più privato: una scelta mirata?
«C’è un duplice racconto di lui: da un lato prendo le distanze – racconto l’uomo pubblico, i film dell’Istituto Luce, la propaganda, lui come una sorta di idolo –, ma dall’altro approfondisco le sue solitudini. Una delle caratteristiche del romanzo è il racconto della solitudine assoluta del potere, che vale per ogni forma di potere, ma fu vera per lui, perché a mano a mano che procedeva verso la dittatura, il totalitarismo, si fece il vuoto attorno a sé. Sacrificò con grande spregiudicatezza compagni di lotta ogni volta che gli faceva comodo, allontanò ogni persona che potesse vantare ogni forma di amicizia con lui, liquidò in maniera brutale persino Margherita Sarfatti, che era stata l’unica donna che veramente avesse contato molto nella sua vita. Resta la sua perfetta solitudine, che sarà anche la campagna d’Italia. Tutto finì col dipendere da lui: del resto, quando il destino di un Paese dipende da un solo uomo diventa necessariamente un destino funesto».
Se Mussolini non avesse sentito quella necessità di annientare, anche all’interno del partito, forme che avrebbero portato il fascismo verso un’altra strada, se fossero state lasciate in autonomia, pensa che le cose sarebbero andate diversamente?
«Non credo che il fascismo potesse avere un altro destino e questo lo chiarisce il primo volume di M. Nel fascismo c’è un rapporto essenziale ed originario con la violenza e la cultura di morte che gli avrebbe impedito di conoscere un destino diverso da quello che ha avuto. Ciò che mi chiede è meno conosciuto e lo racconto proprio in questo secondo volume in cui a emergere è la debolezza di Mussolini e la sua straordinaria capacità di recitare ogni parte, sentendo però il vuoto alle spalle. Aveva costantemente il timore di essere smascherato e questo lo portò a liberarsi, ad allontanare e spesso anche a perseguitare alcuni degli uomini più capaci che aveva attorno, i migliori del fascismo. Racconto il modo spietato con cui consente a Roberto Farinacci e ad altri di provocare la caduta in disgrazia di Augusto Turati, figura centrale di quel periodo, il più longevo segretario nazionale del partito fascista, prima innalzato e poi abbandonato a una violentissima campagna di scandalo sessuale montata ad arte dai suoi rivali interni. Una figura di vittima e di carnefice, vittima di invidie e orrendezze in una Repubblica svuotata di valori civili. Pensi che di lui non esiste uno studio biografico».
Singolare fu anche il rapporto che Mussolini ebbe con le donne.
«Mussolini anche in questo fu un arci-italiano e lo fu in maniera ostentata, esibita. Il culto della sua personalità ruotava attorno a quello che Carlo Emilio Gadda definiva un priapismo per la sua foia sessuale. Qui si rende manifesta questa contraddizione, perché sono anni in cui lui, da anticlericale quale era sempre stato, arriva a sposare Rachele con rito religioso. Nel 1922 diventa presidente del Consiglio e fino al 1929, mentre vive a Roma, lascia la sua famiglia a Milano, moglie e figli. Ne fa tanti, ogni volta corre al capezzale in pompa magna – di solito la faceva partorire sempre in campagna per creare quell’immagine bucolica –, arrivava con la sua automobile, faceva passare le frecce tricolori, ma poi lasciava sempre la sua famiglia in montagna e la sua dimora era una specie di postribolo. Solo nel 1929 Rachele gli chiese di portarli a Roma. Organizzò così la convivenza a Villa Torlonia per poi però continuare in maniera sfacciata le sue relazioni con altre donne, nei confronti delle quali – fatta eccezione per Margherita Sarfatti e Clara Petacci, anni dopo – ebbe un atteggiamento orgogliosamente predatorio. All’epoca il piacere della donna, secondo la concezione del maschio, non era preso in considerazione. Edda Ciano la amava ed era quella che gli assomigliava di più anche dal punto di vista caratteriale, ma degli altri figli non si occupava. Una vera e propria contraddizione, quindi, perché nel frattempo posava insistentemente nel ruolo di padre della patria, dimenticando invece quello di padre di famiglia».
In quei sette anni di cui parla in questo libro, cosa fece di utile e di sbagliato per il nostro Paese?
«Su di lui che ha fatto cose buone c’è stato anche un saggio storico di grande successo, ma io liquido la questione dicendo che avendo Mussolini detenuto un potere quasi assoluto per venti anni sull’Italia, qualcosa di buono l’avrà fatto anche lui. Sicuramente l’impianto della saga di M smentisce quell’idea diffusa ancora oggi secondo cui Mussolini sarebbe stato uno statista in principio e poi soltanto dopo sarebbe decaduto e degenerato. Il maleficio del fascismo è presente sin dal primo giorno della sua nascita. Gli anni che racconto sono anni di grandi promesse, di grandi programmi retorici e di grandi delusioni. I rinnovamenti profondi dello Stato che il fascismo promette una volta al governo, dalle corporazioni fino alla riforma della Pubblica Amministrazione e a quella del Parlamento, rimangono tutti proclami su carta. Il Parlamento non viene riformato ma annientato, la riforma delle corporazioni fallisce e l’Italia resta sempre più schiacciata sotto il peso della burocrazia e delle corposità ministeriali, la corruzione dilaga. Mussolini è una figura che viene proiettata nel mito dell’Istituto Luce, mostra il suo corpo quasi sacramentale e nudo in mezzo ai contadini e agli operai, inizia ad alzare lo sguardo verso le future generazioni. Si rende conto che quell’Italia lì, e con quegli italiani, il fascismo non avrebbe mai potuto realizzare i propri progetti e quindi pensa ad un avvenire lontano, irrealizzabile proprio perché si vede anche lui sconfitto dal presente. In questo libro c’è qualcosa di malvagio fatto dal fascismo e che è poco conosciuto».
Ce lo dica.
«C’è una lunga sezione dedicata a una vicenda ignorata da molti, cioè gli orrendi crimini di guerra di cui gli italiani si macchiarono durante la campagna di Libia, dove, per arrivare a vincere, con la deliberazione di Badoglio, fu organizzata la deportazione di ben centomila civili e la creazione di ben diciotto campi di concentramento, che abbiamo sempre associato al nazismo tedesco. Su una scala così grande sono stati purtroppo dovuti anche al fascismo, una cosa che pochi di noi sanno e ricordano: io per primo, fino a quando non l’ho scoperto. A dir poco scioccante».
Forte, anche in questo libro della trilogia, è il rapporto con le fonti.
«Si è ulteriormente sviluppato e arricchito, tant’è che l’uso di quelle documentarie come contrappunto alla componente di racconto è divenuto sempre più serrato. Una delle tante sotto-trame riguarda lo scandalo del podestà di Milano, Enrico Belloni – una sorta di Mani Pulite ante litteram –, narrato quasi esclusivamente con l’uso combinato di documenti storici che tracciano una linea autonoma. Un tempo si sarebbe definito un tratto sperimentale del romanzo, ma credo che questa possibilità di far raccontare le fonti stesse sia all’insegna dell’assoluta leggibilità per il lettore».
Da romanziere, che valore dà alla letteratura?
«Credo nel potere conoscitivo della letteratura e soprattutto nel potere conoscitivo della forma romanzo in quanto forma democratica, cioè aperta a chiunque. L’arte della forma letteraria è una forma di conoscenza che entra in competizione con alcune forme di rappresentazione del mondo, soprattutto dei media visivi, e in collaborazione con altre forme di conoscenza come la ricerca storica. Fare opera di narrativa letteraria non è affatto meditativo: la letteratura, soprattutto quella popolare, è una forma di conoscenza del mondo, di sé stessi, della vita. Sono un romanziere, è vero, ma penso che in questo ci sia una possibilità di intrattenimento, di godimento, di piacere estetico, di coinvolgimento emotivo e passionale, ma anche una grande possibilità conoscitiva. La letteratura, in quanto tale, sta in una dimensione veritativa e così il linguaggio letterario».