di Guia Soncini (linkiesta.it, 29 agosto 2020)
L’abbronzatura è una volgarità. Sì, va bene: Jacqueline Kennedy Onassis nuda a Skorpios, e altre poche eccezioni. Ma, prima di lei, c’erano stati troppi secoli in cui i braccianti avevano la pelle colorata dal Sole e le signore si coprivano con cappelli a falda larga, perché il nostro cervello non registri comunque che, se sei abbronzato, sei un buzzurro. Con l’aggravante d’essere, l’abbronzatura, il rifugio delle bruttine convinte che la pelle dorata le renderà bellocce.Una mia amica che si occupa di estetica (quella delle creme idratanti, non quella di Cacciari) mi racconta che a settembre l’italiana media tocca sgridarla perché smette di usare detergenti (sì, insomma: di lavarsi la faccia), timorosa che essi le tolgano strati d’abbronzatura. Si affeziona alle proprie cellule morte. L’abbronzatura sono cellule morte che ti danno un aspetto salubre.
Riassunto dell’ultimo scandalo. Luigi Di Maio, ministro degli Esteri di questo disgraziato Paese, incontra il ministro degli Esteri cinese. Nella foto ufficiale, Di Maio è parecchio abbronzato. È un dato fattuale che potevamo aspettarci, bastava aver visto l’Instagram della sua fidanzata che già due settimane fa lo immortalava nerissimo (si potrà ancora usare “nero” per dire “abbronzato”, o il comitato della neolingua mi porterà via in ceppi?). Per la precisione: bianchiccio a luglio, in occasione della foto di compleanno, marroncino a giugno in una prima foto dal mare. Se ne desume che Di Maio sia quel genere di meridionale che appena sta al Sole scurisce (non so se si possa dire “scurisce”, per non parlare di “meridionale”: questo è un articolo scivolosissimo). Sapevamo che era di ritorno dal mare, giacché Gente, nel numero precedente a quello dello scandalo Chanel Totti, l’aveva ritratto mentre usciva dall’acqua con sobria didascalia «novello James Bond», per la quale inspiegabilmente non era scoppiato uno scandalo internazionale. Sull’abbronzatura, però, sì. Giacché gli autoproclamati buoni, quelli che irridono i politici nelle pause tra un sussidio e l’altro, si sono messi a fotomontare il Di Maio Vorrei la pelle nera (canzone per la quale oggi Nino Ferrer finirebbe al 41 bis nelle carceri di Twitter) in scene in cui in originale erano afroamericani (la Mami di Via col vento) o bianchi con la faccia pittata di nero: Totò in Totòtruffa. Già allora, evidentemente, in Campania non vigeva una spiccata sensibilità per la blackface.
Si dà, infatti, che il bianco che si pitta la faccia di nero sia una pratica denominata blackface, del cui orrore e razzismo e inaccettabilità il mondo dello spettacolo americano ha passato gli ultimi mesi a scusarsi. Come già avevo raccontato, tra puntate televisive rimosse dallo streaming perché contenevano blackface di pochi anni fa e sketch di varietà del secolo scorso per cui coprirsi il capo di cenere, l’impressione era che si fossero tutti improvvisamente svegliati antirazzisti e sensibili a orrori che fino a un attimo prima li facevano ridere. (La sintesi estrema è: più il gioco si fa duro e sarebbe bene occuparsi del fatto che i neri non vengano presi per criminali e uccisi preventivamente, più gli intellettuali si attaccano a stronzate come le maschere di Carnevale). Accade, dunque, che Di Maio, nella migliore tradizione di Andreotti che incorniciava le più feroci vignette che lo prendevano per il culo, rilanci sulla sua pagina Facebook i fotomontaggi (“meme”, in neolingua) che l’hanno reso uno con la pelle nera. Se ti appropri dello sberleffo, lo depotenzi: non è un meccanismo di difficile comprensione. Rompi il giocattolo ai buoni decisi a fare gli stronzi. Ma non aveva tenuto conto dell’unico serio colonialismo: quello degli americani sul pensiero pubblico contemporaneo.
Giacché, quando gli americani decidono che una cosa è offensiva, essa dev’essere offensiva per tutti, ieri il New York Times pubblica un traballante articolo sul gesto razzista di Di Maio che ha rilanciato le blackface. Non sapendo cosa scrivere, fanno una specie di microstoria dell’insensibilità italiana al problema della razza, mettendoci dentro anche Berlusconi che disse che Obama è abbronzato (che non si capisce cosa c’entri). Con la sicumera dei colonialisti, ricordano che nel loro sistema, che mica vorremo dubitare sia il più equo, c’è gente che è stata licenziata per essere andata a una festa in maschera con la faccia pittata (una storia delirante, già raccontata). Il portavoce di Di Maio ricorda al New York Times che gli italiani neanche sanno cosa sia una blackface. Ce n’è una – senza che il pubblico faccia un plissé – su Rai 1 ogni venerdì sera d’inverno, nel programma in cui si imitano i cantanti, e i cui concorrenti sono, appunto, travestiti; ma, nella delirante visione americana, se mi travesto da bionda va bene, se mi travesto da Tina Turner o da Beyoncé sto infierendo su un soggetto debole. Giacché nella visione (colonialista) americana conta solo la razza per stabilire gerarchie, e quindi io devo dirmi una privilegiata rispetto a Zadie Smith, perché sì, lei è una strafiga nonché una scrittrice che guadagna cento volte più di me, ma, ehi, io sono bianca.
Mentre ieri io e voi e il New York Times ci facevamo inutili seghe sull’inopportunità di Di Maio, dai social un lumicino di speranza veniva dai milioni di visualizzazioni del discorso d’un paio di settimane fa d’un deputato statale del Tennessee, John J. DeBerry Jr.: nero, democratico, sessantanovenne. Dice DeBerry che quella roba che noialtri leggiamo sui libri di Storia, il segregazionismo, quelli della sua età l’hanno vissuta. Che lui andava a scuola con bambini che avevano la pelle del colore della sua, e beveva a fontane alle quali bevevano quelli con la pelle del colore della sua, e stava nei posti dell’autobus per quelli con la pelle come la sua: perché glielo imponeva la legge. E che, quando suo padre lo portava a manifestare con Martin Luther King, lo faceva perché «voleva che i suoi figli fossero giudicati per quel che era il loro carattere, non per il colore della loro pelle. E tutto quel che facciamo oggigiorno in America è parlare di colore. Tutto riguarda la razza, tutto riguarda il colore, invece di parlare di buonsenso e giustizia».
Sarà interessante stare a vedere cosa succede il giorno – prima o poi arriverà, speriamo per allora di non essere decrepiti – in cui quelli che pensano a Di Maio invece di pensare come DeBerry si svegliano e s’accorgono che questa angolazione è quanto di più razzista esista: un mondo in cui il colore della pelle è l’unica cosa che conti per classificarti. Per ora, però, loro sono gli egemoni e noi i colonizzati, e quindi abbiamo passato la giornata di ieri a contrirci perché, che figura cacina, l’autorevole New York Times ci dava dei razzisti. Se l’avesse saputo, se a Pomigliano d’Arco avessero una qualche sensibilità per le battaglie culturali in auge a Manhattan, Di Maio avrebbe usato quei fotomontaggi contro “i buoni” che lo irridevano. Guardateli, sono razzisti. Gliel’hanno alzata, e non l’ha saputa schiacciare. Adesso che lo sa, chissà se la prossima volta eviterà quella burinata di colorito e userà, come noialtre persone civili, la protezione totale. Ah: su Twitter c’erano anche gli offesi a nome dei malati di melanoma, naturalmente. Chissà se qualche autorevole testata straniera stigmatizzerà anche questo cattivo esempio.