di Michele Bovi (huffingtonpost.it, 22 maggio 2021)
“La bomba cinemusicale del secolo”, quanta ironia ci fosse nella scelta non siamo in grado di saperlo, di certo non poteva esserci slogan più adeguato per quel prodotto della riconversione industriale che trasformava uno strumento impiegato fino a poco tempo prima per finalità belliche in un apparecchio per ascoltare le canzoni di moda con in più la visione degli esecutori. Si chiamava “fonografo visivo”, o meglio Cinebox, un jukebox con lo schermo per riprodurre a colori i filmati, ovvero gli antenati del videoclip. A fabbricarlo era la Ottico Meccanica Italiana (Omi), azienda nella Capitale con più di mille dipendenti, leader mondiale nella aerofotogrammetria.
La Omi fabbricava attrezzature per l’Aeronautica militare, le cosiddette fotomitragliatrici per controllare gli effetti del tiro nelle azioni di guerra e le strumentazioni planimetriche e prospettiche da utilizzare nella ricognizione aerea: in sostanza, gli apparecchi predecessori dei satelliti spia. Negli anni 1939 e 1940 la Omi aveva prodotto per l’Aeronautica e l’Esercito italiani persino una macchina simile a Enigma, il leggendario dispositivo germanico per cifrare e decifrare i messaggi. La Omi era stata fondata nel 1924 da Umberto Nistri, che ancora nel dopoguerra la dirigeva affiancato dai figli Raffaello e Paolo Emilio. Fu quest’ultimo a seguire la produzione del Cinebox, pur mantenendo un ruolo preminente nei rapporti con i clienti militari, soprattutto quelli americani. L’Ottico Meccanica Italiana era fornitrice assidua infatti del governo degli Stati Uniti, tanto da legittimare la costituzione di una nuova società, l’Omi Corporation of America, presieduta da Paolo Emilio Nistri con un ufficiale superiore dell’Esercito statunitense come vicepresidente, con sedi a New York e ad Alexandria in Virginia, a metà strada tra la base dell’Air Force e il quartier generale della Cia, due aree off-limits in cui Nistri ebbe più volte occasione di accedere per ragioni di lavoro. “Possiamo dire che il Cinebox era figlio, o meglio nipote, di attività molto più serie rispetto alla musica”, raccontò Paolo Emilio Nistri nel 2015 al programma Segreti Pop di Raiuno. Quegli apparecchi erano stati usati dall’intelligence durante la guerra come visori automatici delle pellicole realizzate con l’aerofotogrammetria contenenti immagini di obiettivi sensibili.
La presentazione del Cinebox, appunto definito nel giornale aziendale dell’Omi “la bomba cinemusicale del secolo”, avvenne sabato 11 aprile 1959 presso il Circolo della stampa romana a Palazzo Marignoli, tenuto a battesimo dal ministro di Turismo sport e spettacolo Umberto Tupini, dal sottosegretario Domenico Larussa e dalla cantante Nilla Pizzi; cerimonia ripetuta meno di un mese dopo alla Fiera di Milano, con il cineasta Vittorio De Sica in veste di padrino. L’idea della riconversione a fini cinemusicali dei visori utilizzati in guerra dai servizi segreti non fu solo italiana. La francese Cameca, esattamente undici mesi dopo il debutto del Cinebox, presentò un apparecchio analogo, chiamato Scopitone. La Cameca aveva la stessa ragione sociale dell’Omi: fabbricazione di strumenti di precisione per la navigazione aerea e l’aerofotogrammetria. Lo Scopitone nasceva da un progetto firmato dal suo direttore generale Frédéric Mathieu che si avvaleva soprattutto di un brevetto depositato dall’inventore piemontese Teresio Dessilani, già disegnatore tecnico di idrovolanti alle dipendenze dell’azienda aeronautica lombarda Siai Marchetti, la stessa che aveva costruito il trimotore S.M.79 Sparviero, il più famoso bombardiere italiano della Seconda guerra mondiale. Medesima illuminazione ebbero i russi, anche se non si sa esattamente quando: si venne a conoscenza del loro Cinebox soltanto nel 1967 perché lo presentarono assieme a oggetti tradizionali d’artigianato, francobolli, generi alimentari, libri e litografie lituane, alla Settimana sovietica di Milano, ospitata negli spazi della Fiera, del Teatro Lirico e di Palazzo Reale, a cura dell’Associazione Italia-Urss. L’unica differenza con gli apparecchi italiano e francese era che il Cinebox sovietico non riproduceva canzoni da hit parade, bensì filmati folkloristici e geografici.
La “bomba cinemusicale” dell’Omi conteneva quaranta proiezioni a colori, canzoni sceneggiate e girate negli studi di Cinecittà, quindi trasformate in pellicole nei laboratori de La Microstampa di Roma. Il primo antenato del videoclip in assoluto fu Altagracia, un brano interpretato da Don Marino Barreto jr., cantante cubano molto amato all’epoca dal pubblico italiano e dai frequentatori dei nostri night-club. A realizzare il filmato di Altagracia fu nel 1958 Domenico Paolella, il regista più esperto in materia di quello che è stato definito il genere dei “musicarelli”, un prodotto che nasceva e cresceva con l’espansione del mercato dei dischi. Una cinematografia considerata di serie B, alla quale nondimeno lavorarono numerosi elementi di eccellente calibro e che altresì sembrava frequentemente accostare musica con ambienti militari o cerchie assegnate alle informazioni per la sicurezza. Il primo cortometraggio musicale italiano, pertanto l’assoluto precursore del videoclip, è datato 1930. Si tratta della canzone Ninna nanna per dodici mamme eseguita da Odoardo Spadaro e filmata in bianco e nero dal regista Mario Almirante, padre di Giorgio, leader politico della destra del dopoguerra. In quello stesso anno usciva La canzone dell’amore, primo film sonoro italiano, caratterizzato dal brano Solo per te Lucia, per la regia di Gennaro Righelli. Sia il lavoro di Almirante sia quello di Righelli erano stati finanziati dalla Cines del produttore Stefano Pittaluga, re della produzione cinematografica italiana degli anni Venti. Dei due registi, che erano appena rientrati in Italia dopo una lunga esperienza professionale in Germania, soltanto Almirante continuò a cimentarsi in pellicole con spiccati riferimenti musicali.
La canzone tornò a svolgere un ruolo dominante sul grande schermo a partire dal 1950 con Canzoni per le strade di Mario Landi, futuro regista della memorabile serie Le inchieste del commissario Maigret che trasformò l’attore di teatro Gino Cervi in uno dei volti più amati dal pubblico della televisione italiana. Protagonista di Canzoni per le strade era il cantante Luciano Tajoli, alle prese con una sceneggiatura scritta da un cineasta affermato come Dino Falconi e una promessa come Dino Risi, assieme allo psichiatra Carlo Terron, eroico ufficiale medico nella guerra in Albania. Nel 1952 uscì Città canora di Mario Costa, regista già specializzato in film dedicati a opere liriche e che in precedenza aveva ingaggiato come attori gli ultramelodici Claudio Villa e Luciano Tajoli. In Città canora il protagonista Giacomo Rondinella alternava la recitazione al gorgheggio di classici napoletani; firmava la sceneggiatura Anton Giulio Majano, abituale collaboratore di Costa. Majano, ufficiale di Cavalleria formato all’Accademia militare di Modena, aveva esordito nel film di propaganda fascista del 1937 Condottieri come aiutoregista del cineasta altoatesino Luis Trenker, a sua volta ex militare di carriera con esperienze organizzative nel settore cinematografico del Terzo Reich. Lasciata l’uniforme Majano divenne l’insostituibile regista di tutti i più seguiti teleromanzi della Rai, nonché docente di Regia televisiva all’Università internazionale Pro Deo.
Nel 1952 uscì anche Canzoni di mezzo secolo, il primo del considerevole filone musicale concepito da Domenico Paolella. Il film, che riproponeva marcette e melodie care e significative per gli italiani, da Faccetta nera a Vivere, da Scettico blu a Tornerai, abbinava un cast prestigioso, con in testa Silvana Pampanini, Renato Rascel, Lauretta Masiero, Carlo Dapporto, a una squadra stellare di sceneggiatori: Vinicio Marinucci, Dino Falconi, Oreste Biancoli, Cesare Zavattini, Giuseppe Patroni Griffi, Antonio Ghirelli, Ettore Scola. Lo straordinario successo di incassi della pellicola incoraggiò la reiterazione della formula, che Paolella seppe governare con destrezza. Paolella era un intellettuale versatile: giornalista e scrittore, si era messo in luce primeggiando nel settore artistico dei gruppi universitari fascisti scrivendo un trattato sul cinema sperimentale che gli era valsa l’ammissione tra i cinque assistenti dei tre aiutoregisti di Carmine Gallone nel colossale Scipione l’Africano, Coppa Mussolini per il miglior film italiano alla Mostra del cinema di Venezia del 1937, produzione ricordata altresì per il fugace debutto del diciassettenne Alberto Sordi. Diviso tra l’attività pubblicistica di collaboratore di Film, il settimanale cinematografico finanziato dal Minculpop, e del quindicinale La difesa della razza, e quella di telecineoperatore, nel 1942 al seguito dell’8ª Armata nella Campagna italiana di Russia, Paolella ebbe altresì modo nel frattempo di stringere rapporti con ambienti filoamericani tramite l’ufficiale della nostra Aviazione Sandro Pallavicini, marito di Margaret Christine Roosevelt, imparentata con il presidente degli Stati Uniti. Il lavoro svolto da Paolella in Russia, ovvero la documentazione filmata di campi di prigionia sovietici, dislocazioni ed equipaggiamenti militari, interviste a soldati mutilati, fu ritenuto prezioso dai reparti statunitensi esperti di guerra psicologica.
Terminato il conflitto, finite le fasi di vigilanza e dell’informazione sottoposta al controllo delle forze alleate, Pallavicini fondò La Settimana Incom, il cinegiornale di dieci minuti che nelle sale precedeva le proiezioni dei film, assegnando a Paolella le mansioni di redattore capo. Insieme avevano realizzato un documentario che sembrava il preambolo introduttivo alla nuova attività, intitolato Thanks, America: una testimonianza degli Italiani debitori e grati nei confronti degli Americani per il loro contributo alla ricostruzione. Eppure c’era stata accortezza nella creazione della squadra di lavoro de La Settimana Incom: lo stesso Paolella, in L’avventurosa storia del cinema italiano (Cineteca di Bologna, 2011), raccontò a Franca Faldini e Goffredo Fofi di “aver dato vita, d’accordo con il direttore, a una redazione politicamente composita, chiamando a collaborare il giornalista comunista Giacomo Debenedetti, assieme a un redattore socialista e uno dell’Uomo Qualunque”. Paolella mostrò la stessa attenzione per gli equilibri politici anche nella scelta delle squadre di lavoro dei suoi film. Per Canzoni di mezzo secolo, oltre alla ideologicamente variegata composizione degli addetti alla sceneggiatura, aveva anche reclutato come coadiutore all’organizzazione generale Ottavio Jemma, che era l’assistente personale di padre Félix Andrew Morlion, il domenicano magnifico rettore dell’Università internazionale Pro Deo. A Canzoni di mezzo secolo fece seguito nel 1953 una doppietta: Canzoni canzoni canzoni e Gran varietà, musicale il primo, commedia il secondo, entrambi con Alberto Sordi e Delia Scala come protagonisti, oltre a Silvana Pampanini e Vittorio De Sica nel primo e Renato Rascel e Lauretta Masiero nell’altro. Il team di Paolella risultava esemplare: l’aiutoregista di Canzoni canzoni canzoni era Nanni Loy e gli sceneggiatori Ennio Flaiano, Ugo Pirro, Ettore Scola, Giuseppe Patroni Griffi, Antonio Ghirelli, Vinicio Marinucci, Giuseppe Mangione e il paroliere Ferrante Alvaro De Torres, autore del testo di La sagra di Giarabub, il più celebre inno fascista di guerra. Nella sceneggiatura di Gran varietà a Marinucci e Scola si aggiungevano Oreste Biancoli, Vincenzo Talarico e anche qui un famoso paroliere: Michele Galdieri, autore di capolavori come Munasterio ’e Santa Chiara, Portami tante rose, Non dimenticar (T’ho voluto bene).
Nel 1954 il più gettonato all’epoca dei melodici prestati al cinema, Luciano Tajoli, recitò nel suo decimo film, Il cantante mascherato, diretto da Marino Girolami su un soggetto scritto dalla penna più incisiva e popolare di tutta la storia del giornalismo italiano di destra: Gianna Preda, all’anagrafe Maria Giovanna Passagli Predassi, redattore capo de Il Borghese. Insomma, il meglio della cultura italiana in uno stupefacente mélange di colori. Pure se il nucleo centrale rimaneva ristretto a quattro elementi: Paolella, Marinucci, Mangione e il produttore Carlo Infascelli. Quest’ultimo, motore finanziario del quartetto ma anche suggeritore di geniali soluzioni di sceneggiatura, aveva debuttato nel cinema producendo nel 1941 i film Confessione di Flavio Calzavara, il regista preferito dalla stella del Ventennio Doris Duranti, e L’affare si complica di Pier Luigi Faraldo, da un soggetto di Guglielmo Giannini, fondatore nel dopoguerra del Fronte dell’Uomo Qualunque, un movimento al quale sembreranno ispirarsi oltre sessant’anni dopo Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio.
Da due registi fortemente caratterizzati dal gradimento del crollato regime, Infascelli passò all’estremo opposto scegliendo il comunista Aldo Vergano per dirigere nel 1949 Montelepre, un film sul bandito siciliano Salvatore Giuliano. La realizzazione fu faticosa: sulla figura di Giuliano era in atto una feroce disputa politica e la sceneggiatura di Montelepre pareva avvalorare la tesi comunista della strumentalizzazione del bandito operata dall’intelligence americana attraverso propri elementi infiltrati sotto copertura di giornalisti. La sinistra additava come agenti segreti Michael Stern e Maria Tecla Cyliacus, due inviati che erano riusciti ad avvicinare, intervistare e fotografare con facilità quel bandito inafferrabile per le forze dell’ordine, contribuendo a creare il mito attorno a colui che secondo i comunisti era in realtà un terrorista manovrato da forze reazionarie. Infascelli risolse riserve e ostacoli frapposti da Regione siciliana, Revisione cinematografica preventiva, Direzione generale dello spettacolo, modificando il titolo del film, I fuorilegge invece di Montelepre, e con un rimaneggiamento della trama. La presenza del regista comunista Aldo Vergano era comunque compensata dalla partecipazione alla sceneggiatura del drammaturgo Sergio Pugliese, già segretario federale del Partito Nazionale Fascista d’Ivrea e dalla coppia Giuseppe Mangione e Vinicio Marinucci. Superato lo scoglio del bandito Giuliano, Infascelli si dedicò a due filoni di produzione cinematografica: quello dell’importazione in Italia di film dalla Svezia e quello delle commedie, spesso musicali, sempre con il supporto degli amici Mangione e Marinucci, ai quali si era aggiunto Domenico Paolella.
Giuseppe Mangione, “Peppino” per la compagnia, aveva esordito nel cinema nel 1942 collaborando alla stesura del soggetto di Fari nella nebbia, un film diretto da Gianni Franciolini e interpretato da Luisa Ferida, l’attrice fucilata dai partigiani nel 1945 assieme al convivente, l’attore Osvaldo Valenti. Mangione, secondo la documentazione raccolta dallo storico Paolo Palma nel libro Il telefonista che spiava il Quirinale (Rubbettino, 2006), in quel periodo lavorava per il Sim, il Servizio segreto militare, che lo aveva infiltrato tra gli addetti ai telefoni del palazzo che, all’epoca, ospitava la famiglia reale. Mangione, dunque, fu strategicamente operativo in uno dei momenti che cambiarono la storia del nostro Paese: quello del colpo di Stato di Vittorio Emanuele III che esautorò il fascismo. Nel dopoguerra, prima de I fuorilegge Mangione, assieme a Mario Monicelli, Federico Fellini, Tullio Pinelli e Aldo Bizzarri, firmò la sceneggiatura del film italiano di maggior successo della stagione: In nome della legge di Pietro Germi, vicende di un magistrato antimafia, girato in Sicilia, antesignano del cinema di denuncia sociale in seguito sviluppato da Elio Petri, Francesco Rosi, Damiano Damiani. La denuncia affidata al film non suonò per tutti convincente, soprattutto per il finale, in cui il magistrato protagonista stringeva un patto di lealtà con il capomafia, tanto da sollevare roventi polemiche in Parlamento, anche a seguito di una dichiarazione apparsa sulla stampa comunista: secondo l’Unità, Germi aveva potuto iniziare a girare solo dopo che la mafia stessa aveva approvato la sua sceneggiatura. Deputati comunisti arrivarono a chiedere lo stop alle proiezioni della pellicola. La risposta giunse dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giulio Andreotti: “II film è bellissimo, ha ottenuto tutti i visti necessari e non c’è motivo di impedirne la visione”. Mangione lavorò nuovamente con Germi: scrisse anche la sceneggiatura, assieme a Fellini e Pinelli, di La città si difende, che vinse il premio della presidenza del Consiglio come miglior film italiano del 1951 alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia; tra i componenti della giuria figurava Vinicio Marinucci. Giuseppe Mangione morì nel 1976, anno dello straordinario successo televisivo dell’ultimo dei circa sessanta film che aveva sceneggiato: Sandokan, diretto da Sergio Sollima.
L’edizione della Mostra di Venezia che aveva premiato il film dell’amico Mangione, era già la quarta che vedeva in giuria Vinicio Marinucci. Tra i fondatori, nel 1946, del Sindacato nazionale dei giornalisti cinematografici italiani, che ha diretto per quarant’anni, Marinucci aveva esordito come sceneggiatore nel 1949 in Monastero di Santa Chiara, che annoverava tra gli attori un giovanissimo Nino Manfredi e lo scrittore Alberto Moravia: il film era diretto da Mario Sequi su soggetto di Michele Galdieri, autore dell’omonima canzone napoletana. E di canzoni in celluloide Marinucci ebbe modo in seguito di fare scorpacciate accanto agli amici Infascelli e Paolella. Non solo musica, certo, anche agenti segreti, o addirittura segretissimi, visto che per la produzione italo-spagnola del 1965 Agente S03: Operazione Atlantide, il regista Paolella e lo sceneggiatore Marinucci usarono gli pseudonimi di Paul Fleming e Vic Powell. La musica, anzi i “musicarelli” furono comunque il cavallo di battaglia della compagnia. Infascelli, Paolella, Marinucci e Mangione erano abituali frequentatori di casa Nistri, l’industriale del Cinebox per il quale Paolella aveva realizzato i primi filmati.
Nel 1960, in società con Paolo Emilio Nistri nella produzione della “bomba cinemusicale del secolo”, entrò Angelo Bottani, un imprenditore originario di Parma, pupillo di Angelo Moratti, il più potente petroliere italiano, presidente dell’Inter e proprietario con Gianni Agnelli e la famiglia Crespi del Corriere della Sera. Nistri e Bottani decisero di affidare la costruzione degli apparecchi alla società bresciana Mival, partecipata e controllata dalla fabbrica d’armi Beretta, e di promuovere il Cinebox attraverso una serie di iniziative pubblicitarie, tra le quali un film musicale in bianco e nero. Nacque così, tra 1961 e 1962, Canzoni a tempo di twist, prodotto da Carlo Infascelli, soggetto e sceneggiatura di Vinicio Marinucci, Giuseppe Mangione, Fiorenzo Fiorentini e Mario Amendola, per la regia di Stefano Canzio, fidato e talentuoso redattore di Paolella a La Settimana Incom che aveva debuttato come regista nel 1941 per il documentario Atleti dell’Asse. In Canzoni a tempo di twist recitavano Gino Bramieri, Tiberio Murgia, Dominique Boschero, Memmo Carotenuto e cantavano Little Tony, Betty Curtis, Peppino Di Capri, Giorgio Gaber, Edoardo Vianello e altri esecutori all’epoca di moda. La trama narrava di agenti segreti sovietici che gestivano la fabbrica dei Cinebox con l’accortezza di inserire in canzoni e immagini codici funzionali allo spionaggio. Tiberio Murgia interpretava un terrorista siciliano che per distruggere i filmati della cantante Betty Curtis, della quale era innamorato e gelosissimo, collocava ordigni esplosivi in ogni apparecchio. Un racconto bislacco con una sequenza di riferimenti ideata da qualcuno che si divertì a sottintendere una realtà nota a pochi.
Canzoni a tempo di twist ebbe scarso successo, ma lanciò il criterio strutturale di quel genere di cinematografia, ovvero lungometraggi che assemblavano le pellicole musicali realizzate per il Cinebox alternate a scenette comiche. Questo espediente dette vita a una collana di produzioni a costi convenienti e discreti profitti per altri quattro anni, ossia fintanto che il Cinebox restò in attività: la “bomba cinemusicale del secolo” fu infatti disinnescata dal flop commerciale già a metà degli anni Sessanta e gli apparecchi finirono in giro per l’Europa, adibiti a riproduttori di spot pubblicitari o filmati pornografici. Resse per altri vent’anni invece il mercato dei “musicarelli”, per lo più confezionati attorno a una canzone di successo e al suo esecutore. Paolella e Marinucci esaurirono assieme il filone personale con Il Sole è di tutti del 1968, con le esibizioni musicali di Jimmy Fontana, Dino, Mauro Lusini e il gruppo beat le Pecore Nere. Poi altre strade, per chiudere l’uno e l’altro con storie che per bizzarra coincidenza ricordavano il nazismo. Quella di Marinucci esplicita. Il suo ultimo film, di cui firmò soggetto e sceneggiatura, risale al 1976: SS Lager 5, l’inferno delle donne, del regista Sergio Garrone. L’ultimo interamente realizzato da Domenico Paolella fu invece Gardenia, il giustiziere della mala, protagonista Franco Califano. Il film uscì nell’aprile del 1979 e negli stessi giorni l’attore finì in carcere per il possesso di una Walther P38, la pistola in dotazione nell’ultima guerra all’esercito di Adolf Hitler.