(ilpost.it, 13 dicembre 2022)
La ministra del Lavoro argentina Kelly Olmos ha recentemente dichiarato che nel mese di dicembre la priorità è «vincere il Mondiale, più che combattere l’inflazione». Si è poi dovuta scusare, ma questa dichiarazione dice molto sullo stato delle cose in Argentina. La speranza di una vittoria ai Mondiali di calcio sta in un certo senso distogliendo l’attenzione della popolazione e della sua classe politica dalla grave condizione economica, sociale e politica che sta affliggendo il Paese.
I problemi economici rimangono molto seri per l’Argentina, che è di fatto fallita per nove volte nella sua storia, più di qualsiasi altro Paese al mondo, ha un’inflazione vicina al cento per cento e oltre un terzo della popolazione che vive sotto la soglia della povertà. Soprattutto dopo il fallimento del 2001, che la portò al collasso, l’Argentina sembra vivere in uno stato di perenne crisi, con qualche momento di respiro dato dai prestiti internazionali (e dai campionati di calcio) più che da una reale soluzione alle storiche criticità. Anche per questo, la storia della lunga decadenza economica argentina è di fatto la storia degli ultimi decenni di storia del Paese.
All’inizio del Novecento l’Argentina era uno dei Paesi più ricchi al mondo, con un Prodotto Interno Lordo pro capite paragonabile a quello di Francia e Germania. Uno dei motivi che spiegano le croniche difficoltà economiche dell’Argentina è stata la sua incapacità di adattarsi al cambiamento dei tempi. Non è mai riuscita a modernizzarsi e industrializzarsi in modo da diventare competitiva con il resto del mondo. È stato molto significativo in questo senso il governo di Juan Domingo Perón, durato dal 1946 al 1955, le cui idee condizionano la politica ancora oggi. Populista, ammiratore dichiarato di Benito Mussolini e del dittatore spagnolo Francisco Franco, sembrò voler creare una dittatura repressiva, ma non fu esattamente così. Perón attuò un programma nazionalista e statalista con un forte carattere sociale: subito dopo la sua vittoria cercò di favorire i lavoratori e l’aumento di potere della classe operaia; allo stesso tempo nazionalizzò la banca centrale e i trasporti, e cercò di ottenere il controllo statale su tutti gli enti stranieri che operavano in Argentina (soprattutto nella telefonia e nelle ferrovie).
Questa tendenza statalista ha nel tempo scoraggiato e allontanato gli investitori internazionali, che temevano che prima o poi il governo avrebbe preso il controllo di tutto il sistema industriale a loro discapito. La sua ideologia è stata poi denominata “peronismo” e ha permeato moltissimo la politica e la cultura argentina fino a oggi, grazie anche alla figura molto carismatica e iconica della moglie Evita Perón, amatissima dagli argentini per il suo impegno sociale e morta molto giovane. I sostenitori vedono nel peronismo un simbolo dell’impegno sociale di chi stava dalla parte del popolo. Chi invece è contrario evidenzia come il peronismo sia uno stile di governo tutto sommato demagogico, e sensibile solo a parole alle riforme sociali.
Da allora si è susseguita una serie di governi (o, in certi casi, dittature) che ciclicamente hanno ribaltato del tutto la politica economica argentina. Ci sono stati periodi di generosissime ed economicamente insostenibili politiche sociali, a cui poi hanno dovuto seguire fasi di rigida austerità e di forte riduzione della spesa pubblica. La più colpita da questa alternanza è la fascia più povera della popolazione, che ciclicamente deve rinunciare ai sussidi e ai benefici che le erano stati garantiti dai governi precedenti. Nei decenni i governi che dovevano finanziare gli ingenti piani sociali hanno accumulato un enorme debito pubblico, finanziato soprattutto grazie alla collaborazione della banca centrale, che stampava moneta proprio con questo fine.
Questa pratica si chiama “monetizzazione del debito” ed è stata progressivamente abbandonata dalle economie avanzate per tutte le distorsioni che comporta, tra cui un’altissima probabilità di creare inflazione. Semplificando molto, stampare moneta è come “dopare” l’economia, che cresce perché il governo ha finanziato la spesa pubblica grazie a soldi stampati appositamente, e non grazie a un sistema che cresce e che paga in proporzione sempre più tasse. L’inflazione elevata causa enormi danni all’economia e alla società: genera incertezza ed è come una tassa che colpisce tutti i cittadini, soprattutto le fasce più deboli. Ed è proprio quello che è successo in Argentina, dove gli abitanti hanno imparato a convivere con l’inflazione da sempre.
Si è arrivati così agli anni Novanta. Questo decennio è stato per l’Argentina un periodo di forte crescita economica, più alta anche delle vicine economie del Sudamerica. In quegli anni era al governo Carlos Saúl Menem. Eletto nel 1989, Menem ha guidato l’Argentina per dieci anni, prendendo il posto del radicale Raúl Ricardo Alfonsín, che aveva avuto il compito difficile di guidare l’Argentina nel suo ritorno alla democrazia dopo una dittatura militare. Per quanto esponente del peronismo, Menem promosse una serie di politiche neoliberali per aprire il Paese all’economia di mercato. Contro ai princìpi del proprio movimento, Menem portò avanti la privatizzazione di numerose aziende statali e, insieme al ministro dell’Economia Domingo Cavallo, promosse anche una dura politica di austerità economica, tagliando radicalmente le spese pubbliche.
La base delle loro rigide politiche economiche era la cosiddetta ley de convertibilidad, ossia una legge di convertibilità che prevedeva che il peso, la moneta argentina, avesse un tasso di cambio fisso con il dollaro statunitense: questa decisione fu presa per impedire al valore della moneta di oscillare, ponendo così un freno all’inflazione. Queste misure ebbero inizialmente dei buoni risultati e frenarono moltissimo l’inflazione, cresciuta a ritmi elevati negli anni Ottanta. Data la semplicità con cui i pesos potevano essere convertiti in dollari, molti cittadini optarono per usare esclusivamente la valuta statunitense nella propria quotidianità.
Tuttavia, questo provvedimento generò anche una serie di problematiche: la rigidità artefatta del tasso di cambio, che era molto sopravvalutato e non rispecchiava veramente l’economia argentina, rendeva molto più difficile esportare i prodotti argentini, diventati improvvisamente più cari all’estero. Allo stesso tempo, l’apprezzamento troppo forte della valuta aveva fatto aumentare molto i prezzi, riducendo così il potere d’acquisto delle persone. Il che fece crescere povertà e disoccupazione: circa la metà della classe media perse il suo status nei primi anni Novanta. In una situazione già caratterizzata da un’estrema crisi economica e sociale, fu la forza con cui Menem e Cavallo si rifiutarono di svalutare il peso, rimediando così a un tasso di cambio fisso troppo sopravvalutato, a far crollare definitivamente l’economia argentina.
A cavallo tra gli anni Novanta e i Duemila tra i cittadini si diffuse il panico: in moltissimi, temendo un’improvvisa svalutazione del peso, convertirono i propri risparmi in dollari e trasferirono grandi cifre all’estero. In un tentativo disperato di evitare il fallimento e il massiccio deflusso di capitali, il governo argentino guidato da Fernando de la Rùa impose una misura conosciuta come corralito, che congelò tutti i conti bancari dei cittadini argentini per un anno, permettendo unicamente il prelievo di piccole somme di denaro, generando proteste sociali e duri scontri. Da qui si può dire che è iniziata la relazione tormentata tra l’Argentina e il Fondo Monetario Internazionale, che elargì un prestito al Paese nel 2000 ma che non fu sufficiente a tirarlo fuori da una crisi ormai troppo profonda. L’Fmi si tirò quindi indietro e decise di non intervenire oltre.
Il passo indietro del Fondo chiuse l’ultima possibilità di credito rimasta al Paese, ormai privo di qualsiasi credibilità nei mercati internazionali e impossibilitato a ripagare i propri debiti. In un clima di instabilità politica e di violenti scontri, a fine dicembre del 2001 l’Argentina annunciò il default del proprio debito e, nel gennaio 2002, abbandonò il tasso fisso tra dollaro e peso, che fu quindi lasciato libero di deprezzarsi. In questo modo le esportazioni argentine sarebbero diventate meno costose per chi acquistava in altra valuta, facendo così ripartire l’economia. Il governo poi convertì forzatamente i depositi denominati in dollari statunitensi in pesos, di fatto cancellando i risparmi della classe media argentina. Questa imposizione comportò la perdita di oltre un terzo del valore dei depositi privati. L’economia argentina era già in recessione dal 1998 e nel 2002 si contrasse dell’11 per cento; il tasso di disoccupazione aumentò dal 14,8 al 22,5 per cento. I cittadini che vivevano al di sotto della soglia di povertà aumentarono e arrivarono al 57,5 per cento della popolazione nel 2002.
La crisi politica e sociale che ne conseguì fu la peggiore nella storia del Paese. Da allora crisi molto simili, sebbene di minore intensità, si sono ciclicamente riproposte. Non sono mai stati sufficienti i prestiti del Fondo Monetario Internazionale, che nel tempo ha imposto piani di risanamento delle finanze e riforme economiche mai davvero rispettati. Il rapporto tra il Paese e il Fmi negli anni è stato duramente criticato e si è detto che l’istituzione è stata nel tempo o troppo indulgente o troppo punitiva. I più conservatori hanno criticato il Fondo per aver elargito miliardi su miliardi, che sono poi andati sprecati. Gli ambienti più di sinistra, invece, hanno sempre giudicato l’atteggiamento dell’istituzione troppo rigido e neoliberale.
Un nuovo default si è verificato nel 2014 e anche più recentemente: nel 2019 l’Argentina era andata tecnicamente in default a causa della mancata restituzione di un prestito, e da allora i tentativi di stabilizzare l’economia sono stati in gran parte inefficaci. Poi è arrivata la pandemia da Coronavirus: nel 2020 l’economia argentina ha risentito più di molte altre per la crisi provocata dalla pandemia e il Pil del Paese è sceso di oltre l’11 per cento. A maggio del 2020 il Paese è andato di nuovo in default perché non è riuscito a ripagare in tempo altri debiti. A causa dell’impossibilità di finanziarsi sui mercati, il governo ha cominciato di nuovo a stampare moneta provocando un aumento dell’inflazione, che ha finito per danneggiare cittadini e aziende.
Il governo era stato costretto a ristrutturare il debito, cioè a modificare le condizioni per la sua restituzione, prima con i privati e poi, all’inizio del 2022, con il Fondo Monetario Internazionale: l’accordo con l’Fmi sospendeva la rata da 700 milioni di dollari che il governo avrebbe dovuto restituire a breve, e congelava i futuri pagamenti, in cambio della riduzione graduale, da parte dell’Argentina, del proprio rapporto tra deficit (cioè tra il disavanzo annuale tra entrate e uscite dello Stato, che contribuisce a formare il debito pubblico) e Pil, dal 2,5 per cento attuale allo 0,9 per cento nel 2024. La situazione è poi aggravata da una situazione bloccata a livello politico, con le crescenti divisioni fra il presidente Alberto Fernández e l’influente vicepresidente Cristina Fernández de Kirchner (i due non sono parenti), presidente dal 2007 al 2015 e recentemente condannata per corruzione.
La situazione economica dell’Argentina è nuovamente a livelli preoccupanti. Non ha più accesso ai fondi internazionali, ha un debito di oltre 40 miliardi di dollari con il Fondo Monetario Internazionale e sembra vicina a esaurire le proprie riserve monetarie. Il 36 per cento della popolazione vive in condizioni di povertà. Il tasso d’inflazione è attualmente all’80 per cento su base annua e potrebbe raggiungere il cento per cento entro la fine dell’anno. Nel 2022 nell’Unione Europea e negli Stati Uniti i cittadini sono tornati a sperimentare gli effetti di una forte inflazione: i prezzi aumentano e con la propria retribuzione si comprano sempre meno cose; si ha paura per il futuro, si rimandano le scelte o le si affrettano per paura che in futuro le cose costino troppo, c’è incertezza e confusione.
Ma gli argentini convivono con un’altissima inflazione da tutta la vita e questo condiziona enormemente anche le faccende più pratiche. Con un’inflazione così dilagante, il denaro ha perso la sua funzione di riserva di valore e serve solo come mezzo di pagamento. Non c’è alcuna tranquillità nel mettere i soldi da parte perché, di fatto, nel tempo varranno sempre meno. Il denaro serve per la vita di tutti i giorni ed è ancora legatissimo al dollaro statunitense. Nel Paese esiste un cambio ufficiale con il dollaro e uno clandestino, definito dólar Blue, quasi doppio rispetto a quello ufficiale e completamente sdoganato, con tanto di quotazioni sui giornali. Questo tasso rappresenta il costo di acquisto e vendita di una banconota fisica in dollari sul mercato nero.
Le autorità tollerano l’esistenza delle cosiddette cuevas (letteralmente, grotte), dove si va per cambiare dollari o euro in pesos. Per strada si viene spesso avvicinati da persone chiamate arbolitos (piccoli alberi in Spagnolo), che indicano la strada per andare a una delle tante cuevas. Apparentemente si tratta di banchi di pegno o “compro oro”, ma in realtà lì avviene lo scambio di valute. Gli argentini oggi usano le cuevas per comprare dollari nella speranza di ottenere più pesos cambiandoli dopo solo qualche settimana. Un problema nella quotidianità degli argentini riguarda il fatto che nelle cuevas non si trovano sempre banconote di tutti i tagli: spesso bisogna accontentarsi di banconote e monete di piccolo o piccolissimo taglio. Quando una moneta è molto svalutata ne serve tanta anche per comprare beni di poco valore. Il che potrebbe comportare di dover andare a fare piccoli acquisti con tantissime banconote, che poi i venditori devono verificare e contare.