I gemelli di Claudio Villa

Ansa – S&M Studio

di Michele Serra (ilpost.it, 2 novembre 2024)

Claudio Pica, in arte Claudio Villa, nacque a Trastevere nel 1926, figlio di un vetturino e di una casalinga di nome Ulpia. Era basso di statura, di carattere molto polemico, fisicamente tosto. Amava le motociclette e si dice che l’infarto che lo portò a morire piuttosto precocemente (aveva 61 anni) sia stato causato dallo sforzo insistito per calcare una pedivella d’avviamento. Era comunista e ateo.

Lasciò scritto di non volere esequie religiose. Sulla sua tomba, a Rocca di Papa, sta scritto: «Vita sei bella, morte fai schifo». Un commiato quasi punk per il campione assoluto della canzonetta melodica tradizionale. La sua voce da tenore leggero, intonatissimo, pronuncia impostata e rotonda, rappresenta un vero e proprio canone della melodia popolare italiana, parente povera delle romanze d’opera.

In quel genere canoro – che la seconda metà del Novecento poi ridimensionò decisamente – la prestanza della voce (mantenere l’acuto finale per molti secondi, tanti da far temere l’apoplessia al pubblico in visibilio) era parte integrante del valore dell’interprete. Un uso agonistico del canto che a Villa, lottatore nato, si confaceva molto. Lo alternava, come richiesto dal genere, a momenti soavissimi, nei quali la voce si modulava con eleganza quasi femminile. (Nei Racconti romani Alberto Moravia fa un accenno divertito al contrasto tra la “complessione fisica” di certi omoni stornellatori, e la loro voce melodiosa, a fior di labbra).

La sua discografia è sconfinata. Riletta oggi, sembra il repertorio completo della canzonetta tradizionale italiana, e forse lo è. Basti l’elenco delle “serenate” incise, tutte rigorosamente a 45 giri: Serenata, Serenata celeste, Serenata messicana, Serenata serena, Serenata per sedici bionde, Serenata a Maria. Vinse quattro Festival di Sanremo, fu costantemente finalista di Canzonissima, fece migliaia di concerti. Ebbe una popolarità immensa a partire dal primo Dopoguerra. Se possibile accresciuta dall’avvento dei primi rocker (Celentano su tutti): l’antitesi tra il canone antico dei cantanti melodici e la scossa ritmica del nuovo evo suscitò epici scontri, polemiche giornalistiche, veri e propri duelli televisivi.

Tra la fine dei Cinquanta e i primi Sessanta, con la velocità travolgente che è solo delle rivoluzioni, arrivarono gli urlatori, i capelloni, i beatnik, lo yeyé, la cosiddetta “canzone di protesta”, e il fronte artistico di quelli come Villa parve, di colpo, di un altro secolo. Lui si batté come un leone sulla trincea dei “vecchi tempi”, rispondendo colpo su colpo. In televisione, nelle interviste, ovunque potesse rivendicare il primato del bel canto, il Reuccio (soprannome per metà affettuoso per metà beffardo affibbiatogli da un altro romano verace, il presentatore Corrado) c’era. E quando arrivava a Sanremo per il Festival, aveva il piglio di chi era lì per rimettere le cose al loro posto, e dare una lezione agli usurpatori.

Non è difficile immaginare che cosa potesse pensare di Claudio Villa, alla fine degli anni Settanta, un giovane giornalista con i capelli lunghi, cresciuto a Genesis e Jimi Hendrix, Finardi e De Gregori. Quel giovane giornalista ero io, e Villa mi sembrava un sopravvissuto. Molto più vecchio della sua età effettiva. (Solo parecchi anni dopo, lavorando con Gianni Morandi, ne capii il valore artistico: Morandi ne parlava, e ne parla tutt’ora, come di un modello assoluto, «mi sono sempre sentito una via di mezzo tra Villa e Celentano. E la voce di mia madre che cantava le sue canzoni è la voce della mia infanzia»).

Io lavoravo per l’Unità, organo del Partito Comunista Italiano, pagina degli spettacoli. Sarà stato il 1979 o il 1980. Mi avevano spedito a una conferenza stampa di Claudio Villa, a Milano, e immagino che non ci andai volentieri. Ne feci una cronaca probabilmente poco benevola, nella quale non potei fare a meno di inserire un dettaglio che mi aveva molto colpito. Portava ai polsini due enormi gemelli d’oro. Non avevo mai visto niente di simile. Scrissi: «grossi come dischi volanti». Il giorno dopo, quando uscì l’articolo, verso la fine della mattinata suonò il telefono sulla mia scrivania, nel fracasso nicotinico della redazione. Dalla portineria la voce cavernosa di Giuseppe, custode e centralinista, mi diede una notizia che mi sembrò terrificante. «C’è qui Claudio Villa. Dice che vuole parlarti. Sembra molto incazzato».

La stazza notevolissima di Giuseppe mi rassicurava, ma la fama litigiosa di Villa mi preoccupava parecchio. Pensavo che volesse menarmi. Ma il dovere è dovere, sapevo che Villa era “un compagno” e dunque l’Unità, dopotutto, era anche il suo giornale, e dunque scesi per affrontare la dura prova. Mi è difficile, quasi mezzo secolo dopo, ricordare nitidamente la conversazione. Ma il punto fondamentale, il nocciolo della questione, lo ricordo bene. Claudio Pica da Trastevere era sì furibondo; ma soprattutto ferito. Lo aveva ferito il mio riferimento ai gemelli «grossi come dischi volanti».

Mi piace riassumere dopo tanti anni, e pazienza per le eventuali imprecisioni, il breve discorso che il Reuccio mi fece, seduti uno di fronte all’altro nella saletta della portineria dell’Unità di Milano, mentre il custode Giuseppe, con la coda dell’occhio, vegliava sulla mia incolumità: «Non me ne frega niente se non ti piace come canto. Ma non ti perdono di avermi preso per il culo per i gemelli d’oro. Io sono uno del popolo, e l’Unità è il giornale del popolo. Se scrivi sull’Unità che ho i gemelli d’oro, tu mi metti contro il popolo. Non mi va di passare per uno che vive nel lusso, anche perché non è vero. Mi ero messo elegante per la conferenza stampa, perché ho rispetto dei giornalisti. Tu invece non hai avuto rispetto per me».

Non l’aveva presa come una critica estetica, la storia dei gemelli. Come la presa in giro di uno studente borghese (tale ero) per gli eccessi di un proletario arricchito. L’aveva letta come una critica politica del “giornale del popolo” nei suoi confronti. Quello che per me era stato solo un dileggio occasionale, una noterella satirica sull’abbigliamento di un cantante, per lui era un attacco alla sua credibilità di “uomo del popolo”. Non ricordo se afferrai subito, al momento, la molla della sua irruenza, del suo bisogno di venire di persona a dirmi che l’avevo offeso. Né ricordo che cosa gli risposi – probabilmente qualche imbarazzata parola di rincrescimento – prima del suo saluto comunque amichevole: si era sfogato, sentiva di avere spiegato a un ragazzino incauto, che niente poteva sapere della vita, chi era Claudio Villa per il suo pubblico e per sé medesimo: uno del popolo.

Quando ripenso a quel breve incontro, misuro il tempo trascorso con un certo sgomento. I gemelli di Claudio Villa mi suona antico come un racconto edificante di Cuore, quello di De Amicis bene inteso, tipo Il piccolo scrivano fiorentino o Dagli Appennini alle Ande. Il ritratto di un’Italia edificante e laboriosa, probabilmente mai esistita eppure in grado di pensarsi tale. E valuto che tutti i parametri “morali” di questa piccola storia, ma proprio tutti, sono saltati come tappi. Niente di quell’incidente e di quel colloquio sarebbe oggi riproponibile, e forse neppure più comprensibile, a partire dal concetto di “popolo” così come Claudio Villa lo brandiva.

L’idea di popolo alla quale si atteneva Villa era virtuosa, forse già allora surclassata dalla realtà (Pasolini era morto ammazzato, pochi anni prima, per mano di un popolano romano), un’idea integra e semplice, ingenua quanto si vuole: eppure, mezzo secolo fa, ancora rivendicabile in opposizione al lusso, agli eccessi, alla perdita di misura, e perfino in opposizione all’ingiustizia. Può darsi che Villa, in questo senso, si portasse addosso un leggero senso di colpa – aveva “fatto i soldi” – e può anche darsi che quei gemelli enormi, almeno in pubblico, non se li sia mai più messi. Sta di fatto che un artista famoso, nel 1980, valutava ancora la propria immagine pubblica sulla base di una specie di moralità, di costumatezza, oggi semplicemente incomprensibili.

L’ostentazione sociale, poco importa se elegante o pacchiana, è diventata un tratto definitivo della nostra epoca. Con lo star system che fa da traino, e giù giù, a cascata, fino al più derelitto degli influencer, il diametro dei gemelli d’oro non è mai troppo, semmai troppo poco. Esiste una colossale produzione social, specchio emulativo di una quasi altrettanto imponente scena artistica, fondata sull’elencazione minuziosa dei gettoni d’oro vinti alla lotteria universale. Automobili, vestiti, case, vacanze, feste, cibi, atteggiamenti il cui unico scopo convergente è dire: sì, sono ricco, alla faccia vostra. E me ne vanto.

Il concetto stesso di popolo – al netto della falsa esaltazione populista, la più ripugnante e strumentale delle finzioni, non per caso spesso agitata da miliardari – è sbiadito al punto che nessuno può tracciarne una fisionomia riconoscibile. Le classi sociali sono un frullato di consumatori più o meno abbienti (la scala delle differenze è da uno a mille: ma tutti comunque appartengono alla stessa categoria, consumatori). Non esiste fisionomia di classe che proponga (od opponga) gusti o ambizioni divergenti, o se esiste (la crisi economica e la precarietà aguzzano l’ingegno) non ha ancora trovato la maniera di definirsi politicamente e culturalmente, e di porsi come modello alternativo.

“Popolo” non significa più ciò che già in quel 1980 era molto azzardato sperare che significasse. Il muratore in canottiera che cantava Claudio Villa con il cappello di carta giornale sulla testa, il garzone in bicicletta, la portinaia che passa lo straccio nelle scale, la sartina che rammenda, i “poveri ma belli” del Neorealismo più edulcorato, erano stati italiani in carne e ossa. Quali che fossero le loro ambizioni o le loro speranze, o il loro trattenuto malanimo, la loro natura di “popolo” non comportava imbarazzo o stigma: viene da dire che essere popolo era una condizione umana accettata e perfino rivendicata.

Il popolo non si vergognava, e dunque non si travestiva. Avanti popolo, alla riscossa, era l’incipit dell’inno comunista. Il giornale della Democrazia Cristiana si chiamava Il popolo. L’aggettivo “popolare” non era il puro computo quantitativo del successo, e Villa non si considerava popolare solo perché era famosissimo e aveva venduto molti dischi. Si considerava tale per nascita, per gusti personali e per vocazione artistica: la sua voce echeggiava negli androni dei caseggiati, nei cortili dove giocavano i bambini, nelle impalcature dei cantieri.

Questo ragionamento non vuole essere “nostalgico”. Nello scardinamento delle vecchie fisionomie sociali non c’è soltanto quell’“omologazione” che tanto scandalizzò e sconvolse Pasolini. C’è anche qualcosa di oggettivamente “democratico”, carte rimescolate, maggiore possibilità di non definirsi solamente sulla base delle proprie origini sociali. E se ricchi e poveri esistono sempre, forse più di prima, non riconoscerli per la strada non è necessariamente un male. Però la costruzione del giudizio, di un vaglio etico e anche estetico, beh quella è diventata molto più difficile, e non per caso più rara.

Il fu popolo ammira smisuratamente la ricchezza, il repertorio trap è quasi per intero il racconto della consegna dell’identità popolare (la fu identità popolare) alla cultura dei ricchi. Non dei borghesi, che specularmente alla classe operaia avevano valori propri, e inconfondibili: dei ricchi in quanto ricchi, dell’accumulo di beni e di carte di credito. Chi mai, al mondo, oggi accuserebbe qualcun altro di «averlo fatto passare per ricco», come fece Claudio Villa rimproverandomi?

Se era, come credo, proprio il 1980, era lo scoccare del decennio che ha cambiato il nostro mondo come nessun altro. Nel quale quasi ogni aspetto della profonda diversità culturale tra le classi sociali, le ideologie politiche, i modi di vivere, confluirono spensieratamente, quasi in massa, nel paese dei Balocchi. Nelle hit parade entravano al galoppo i nuovi cantanti da discoteca (molti erano solo modelli con la voce imprestata da un ghost-singer). A uno dei più noti toccò in sorte, come nome d’arte, Den Harrow, che si pronunciava den-aro. Tutto un programma, anzi tutto il programma era lì. A preoccuparsi se fosse il caso, oppure no, di portare gemelli troppo vistosi, non rimase più nessuno.

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