(ilpost.it, 23 marzo 2024)
In Libia tutti hanno presenti due film: Il messaggio, del 1976, e Il leone del deserto, del 1980. La televisione li trasmette da decenni, in occasione di feste e celebrazioni ufficiali, e sono di gran lunga i film più amati e visti nel Paese. Ma non sono dei film come gli altri. Li finanziò l’allora presidente Muammar Gheddafi, e secondo il regista e produttore cinematografico libico Muhannad Lamin, che ha raccontato sul sito New Lines Magazine il loro ruolo centrale nella storia del suo Paese, sono oggi quello che in altri posti sono i film di Natale, come potrebbe essere in Italia Una poltrona per due.
Ma anche se furono pensati come strumenti di propaganda del regime, col tempo Il messaggio e Il leone del deserto hanno iniziato a vivere di vita propria, fino a diventare addirittura simboli dell’opposizione a Gheddafi. La loro popolarità e importanza condizionò profondamente l’industria cinematografica libica, secondo Lamin impoverendola, e influenzò anche i gusti del pubblico. Ma sia Il messaggio, che usò alcune tecniche originali per rappresentare la vita di Maometto, il profeta dell’Islam, sia Il leone del deserto, uno dei pochi film sulla dominazione coloniale italiana in Libia, sono oggi oggetto di studi e apprezzati, per alcune loro caratteristiche, anche dalla critica.
Quando il regista siriano Mustafa Akkad dovette pensare a come portare sullo schermo la vita di Maometto, la cui rappresentazione è vietata con diversi gradi di rigidità in molti Paesi musulmani, decise di non mostrarne mai il volto, ed evitò anche di farne ascoltare la voce. Di conseguenza, in più di tre ore di film, quello che dovrebbe essere il protagonista delle vicende narrate non compare e non parla neppure un secondo. Serviva a non irritare pubblico più dogmatico, e comportò di girare tutte le scene con Maometto in soggettiva, una tecnica di ripresa in cui la scena viene inquadrata dal punto di vista di uno dei personaggi, come se la si vedesse attraverso i suoi occhi.
Inoltre, Akkad fu costretto a sottoporre la sceneggiatura di Il messaggio all’esame della Lega musulmana mondiale, un’importante organizzazione non governativa islamica, che la ritenne blasfema e che, nell’agosto del 1974, riuscì a esercitare pressioni su Hassan II, ai tempi re del Marocco, per ottenere l’intervento della polizia e l’interruzione delle riprese a Marrakech. A quel punto Akkad stava per abbandonare definitivamente il progetto, anche perché aveva iniziato a girare già da 13 settimane e gran parte dei 17 milioni di dollari che aveva raccolto nei tre anni precedenti dalle donazioni di privati statunitensi e di alcuni Paesi arabi (Kuwait, Libia, Marocco e Arabia Saudita) per finanziare la produzione erano già stati spesi per ingaggiare gli attori, pagare la troupe e coprire i costi per la ricostruzione della Mecca.
Alla fine il film fu portato a termine proprio grazie all’intervento di Gheddafi, che, oltre a finanziarlo da capo, mise a disposizione di Akkad nuove location per le riprese. I costi di produzione di Il messaggio furono molto alti, per vari motivi: ne furono realizzate due versioni, una in Inglese (The message) e una in Arabo (Al-risâlah), ciascuna con un cast di attori differente; e per realizzare la replica della Mecca, la città santa islamica, che inizialmente fu allestita a Marrakech (in Marocco), furono investiti 700mila dollari, una cifra considerevole per i tempi. Per la realizzazione de Il messaggio furono spesi complessivamente 27 milioni di dollari, che equivarrebbero oggi a più di 147 milioni di dollari – per fare un paragone Barbie e Oppenheimer, due dei blockbuster più visti dello scorso anno, sono costati rispettivamente 145 e 100 milioni di dollari.
Dopo Il messaggio Gheddafi finanziò nuovamente Akkad per realizzare un altro film, questa volta dedicato alla figura di Omar al-Mukhtar, l’imam che tra il 1929 e il 1931 guidò la resistenza contro la campagna coloniale dell’Italia in Libia. Il risultato fu Il leone del deserto (1980), interpretato tra gli altri da Anthony Quinn (Omar al-Mukhtar), Oliver Reed (Rodolfo Graziani) e Rod Steiger (Benito Mussolini).
Anche se si tratta di un film che Gheddafi fece realizzare per trasmettere alla popolazione libica un senso di unità nazionale, Il leone del deserto è apprezzato da una parte della critica soprattutto per la sua unicità: è infatti uno dei rari film dedicati al passato coloniale dell’Italia, una realtà notoriamente poco rappresentata nelle opere di finzione. In effetti in Italia venne censurato per decenni e non fu trasmesso fino al 2009, precisamente l’11 giugno su Sky Cinema, il giorno dopo l’arrivo di Gheddafi in Italia per una visita ufficiale (cui peraltro si presentò con una foto di al-Mukhtar appuntata sul petto, e con uno degli eredi di al-Mukhtar al seguito).
Sul sito New Lines Magazine, Lamin ha scritto che Gheddafi provò a controllare il più possibile il lavoro di Akkad per far diventare Il leone del deserto un film propagandistico: per esempio, i membri della famiglia Sanussi (cui apparteneva anche Idris, il sovrano rovesciato da Gheddafi) furono ritratti come traditori e collaborazionisti. Tuttavia, alla fine il film «acquisì una vita propria» e, contrariamente alle attese, diventò un simbolo delle forze di resistenza libica contro il regime di Gheddafi: per esempio, durante le rivolte del 2011 i manifestanti sfoggiarono spesso magliette e bandiere con il volto di Omar al-Mukhtar.
In Libia Il messaggio e Il leone del deserto sono diventati film di culto al punto che, secondo Lamin, vengono visti con tutta la famiglia in occasione delle feste e «conferiscono valore emotivo, stabilità e radicamento». Lamin ha raccontato che, tra gli anni Ottanta e Novanta, Ali Ahmed Salim, l’attore che interpretava Bilal ibn Rabah – nelle Scritture considerato il primo muezzin dell’Islam, ossia la persona incaricata di richiamare i fedeli alla preghiera per cinque volte al giorno –, nella versione araba de Il messaggio è diventato un personaggio pubblico molto influente e amato. È stato invitato a presentare eventi in tutti i principali luoghi di cultura del Paese, dalle università alle moschee, ed è stato a lungo considerato dagli spettatori una specie di «reincarnazione» di Bilal.
Al contrario, gli attori che interpretavano ruoli da antagonista, o comunque “negativi”, ebbero un destino diverso. Lamin cita a questo proposito il caso di Salim Gedarah, un elettricista senza alcuna esperienza di recitazione che lavorava nell’hotel in cui alloggiava Akkad, che lo scelse per fargli interpretare l’uomo che uccide lo zio di Maometto nella versione araba de Il messaggio: dopo aver visto il film, sua madre lo costrinse ad andare via di casa e ci ripensò soltanto dopo l’intervento degli sceicchi locali.
Il messaggio e Il leone del deserto uscirono in un periodo difficile per l’industria cinematografica libica: negli anni Ottanta, Gheddafi concepiva il cinema quasi esclusivamente come uno strumento di propaganda. Impedì ai registi locali di ottenere finanziamenti e inserì membri dei suoi comitati rivoluzionari nei principali enti dedicati alla produzione cinematografica come il Consiglio Generale del Cinema, che era stato istituito durante la monarchia. Sotto la guida di Gheddafi, in Libia vennero prodotti soprattutto documentari e film propagandistici di scarso successo, fondati in particolare sulle idee espresse nel cosiddetto Libro verde, il manifesto del 1975 in cui Gheddafi espose i principi generali della sua dottrina politica, che in sostanza proponeva di coniugare socialismo e panarabismo come terza via rispetto al capitalismo occidentale e al comunismo sovietico.
Questo controllo serratissimo creò un senso di uniformità nella produzione cinematografica libica, che, ad eccezione Il messaggio e Il leone del deserto, non ha mai prodotto film rilevanti e capaci di farsi conoscere all’estero. A questo proposito, Lamir ha scritto che Gheddafi «decise che i suoi due film di successo erano le uniche rappresentazioni cinematografiche di cui la nazione aveva bisogno», dato che li considerava funzionali al messaggio che voleva infondere nel popolo libico: due film dal carattere «emotivo, religioso e nazionale», con cui i libici avrebbero potuto facilmente identificarsi, e che sono apprezzatissimi in patria ancora oggi.