I 60 anni di Diana, Sua Altezza Vittimaria

di Guia Soncini (linkiesta.it, 1° luglio 2021)

Quando Diana Spencer era morta da un anno, e tra gli osservatori della società quasi nessuno aveva ancora capito quanto fossero permanenti i danni da lei inferti, e i giornali raccontavano quell’anno abbastanza crudele trascorso a stupirsi d’una monarchia che aveva affrontato le guerre in modo meno traballante rispetto all’impatto inferto dall’incidente stradale d’una bionda, quando i pellegrinaggi nei luoghi in cui era vissuta ed era morta erano in fisiologico calo e c’illudevamo che le estati trascorse a occuparci della Principessa del Popolo fossero finite, in quella coda d’estate del 1998 io di lavoro parlavo alla radio, e tra le canzoni che punteggiavano le mie stronzate ce n’era una di Cher. Chiedeva: «credi in una vita dopo l’amore?».

Reuters

Poiché avevo venticinque miserabili anni, non mi rendevo conto che sembrasse una canzone scritta da Diana: non importa quanto io ci provi, belava la vittima autocertificata, non riesco a fare breccia in te, non c’è modo di parlarti. L’io narrante di Cher era chiaramente Diana, Sua Altezza Vittimaria, che tentava di parlare con la gelida famiglia, ma «you keep pushing me aside». All’epoca avevo un amorazzo cui piaceva moltissimo imitare il Nino Manfredi di Straziami, ma di baci saziami, e – poiché non capivo niente di niente, ma almeno ero giustificata dall’età, diversamente dagli editorialisti già allora adulti – non sapevo che anche quel personaggio, quello che si riprometteva di tornare ricco e spietato come il Conte di Montecristo, anche quel Manfredi era Diana. Non sapevo niente, figuriamoci se sapevo che ci si poteva vendicare da morte.

Adesso che Diana compie sessant’anni, in quest’epoca bislacca in cui festeggiamo i compleanni dei morti, adesso che non li compirà mai e non leggeremo mai i resoconti dei tabloid sui suoi bisticci con una nuora determinata persino più di lei a stare al centro dell’attenzione (come mi manca Diana da quando c’è Meghan, una Diana in sessantaquattresimo), adesso è chiaro che l’unico sociologo che l’aveva capita era Elton John. Se siete adulti vi ricordate quell’estate di funerali del 1997. Quell’estate in cui il Vanity Fair americano metteva in copertina Diana vestita Versace, e prima moriva Gianni Versace, e Diana andava ai funerali, e poi moriva Diana, ed Elton John sceglieva di ricordarla in un modo che alla scemissima me men che venticinquenne sembrava solo pigro: cambiando due parole a una sua canzone su Marilyn Monroe. L’incipit di Candle in the wind da «Goodbye, Norma Jean» diventava «Goodbye, England’s rose», e milioni di editorialisti non avevano colto il punto con altrettanta precisione. Il punto è: come diventare un poster. Non so se muoia giovane chi è caro agli dèi, di sicuro muore giovane chi lascia bei poster. Chi non smette mai di somigliare alla propria figurina nell’album delle celebrità. Certo, potrebbe obiettare uno spirito pratico, meglio sfasciarsi e vivere a lungo e presumibilmente soddisfatte come la Bardot, che morire prematuramente dopo brevi infelicità ma somigliando per sempre a quel fotogramma di Quando la moglie è in vacanza.

Tuttavia la scelta non si dà: non è che Diana abbia deciso di morire trentaseienne, è accaduto, e tutto ciò che possiamo fare è considerare quanto questo elemento abbia influito nella sua canonizzazione pop. Il suo effetto sul nostro inconscio sarebbe stato altrettanto dirompente se fosse invecchiata davanti ai nostri occhi? Perché una certezza ce l’ha anche chi è sociologo meno accurato di Elton John: non sarebbe invecchiata riservatamente. Sarebbe stata madrina di cause giuste e sbagliate, avrebbe avuto un seguito ineguagliabile su Instagram, a ogni post d’una nuora smaniosa avrebbe contrapposto una propria foto di gioventù, vecchia gloria che non ci permette di dimenticarci che è stata giovane e bella, vecchia Swanson che ci ricorda che lei è ancora grande, è lo schermo che è diventato piccolo. Se questa realtà alternativa in cui è viva la sceneggiassi io, ce la ritroveremmo in almeno un paio di reality, ci sarebbero concorrenti la cui presenza sui giornali viene per anni assicurata dal fatto che hanno condiviso il set del Grande Fratello o quello di Temptation Island con Diana Spencer, e possono raccontare che non è mica mite come sembra, generosa come sembra, vittima come sembra.

La potenza d’una Diana defunta è tale che, ventiquattro anni dopo la sua morte, lo scandalo di primavera è che quel capolavoro comunicativo di vittimizzazione di sé che la signora mise in onda sulle frequenze della Bbc, quell’intervista «eravamo in tre nel mio matrimonio, era un po’ affollato», quella conversazione occhi bassi e kajal strategico, la versione primaverile è che quello sarebbe stato un inganno della Bbc perpetrato ai danni della povera, ingenua Diana, convinta dai cattivoni della tv che la famiglia reale la odiasse, Diana vittima allora e vittima per sempre. La debolezza d’una Diana viva sarebbe quella d’essere una delle tante il cui addetto stampa elemosina interviste e ospitate nei talk show, la Bbc passerebbe da carnefice a corteggiata renitente, no, vi abbiamo detto che non la mandiamo in onda quest’anno, i suoi sessant’anni sono al massimo roba da TikTok, non insistete, ancora Diana, basta, cheppalle. Poiché però, dai suoi tempi, il parco della visibilità s’è molto ampliato, ci sarebbero anche per lei spazi da celebrità di serie B. Il femminile che titola su Diana che mostra senza vergogna i capelli bianchi, nell’anno della pandemia, scialando parole come empowerment e body positivity (nella pagina a fianco, una pubblicità di tinture casalinghe). Quello che la usa per venderci il concetto della vita che comincia a sessant’anni (nella pagina a fianco, pubblicità di pannoloni per l’incontinenza così invisibili che permettono alla vegliarda mai arresa di mettere la minigonna). E i quarant’anni dai primi casi di Aids diagnosticati, signora Spencer ci parli di quando toccò un sieropositivo e ci sembrò un gesto eroico, per caso ha un’opinione anche sulle mascherine? (Una Diana viva oggi avrebbe, sono disposta a scommetterci tutte le monete contenute nel mio salvadanaio, passato le prime settimane di pandemia ad abbracciare cinesi per dimostrarci che non è razzista, che non ha pregiudizi, che Diana non si ferma e altre amenità; una Diana viva oggi, ci scommetto gli spicci, farebbe un grande uso della parola «stigma»: chissà se sarebbe arrivata a farsi cucinare un pipistrello da Gordon Ramsay per dimostrarsi non preda di pregiudizi).

Crederebbe fortissimamente, la Diana sessantenne, in una vita dopo l’amore, in nuovi amori che in modi sempre nuovi e sempre fotogenici la deludano, dichiarerebbe con gli occhi bassi che ormai è solo una nonna e quel che conta è l’amore dei suoi nipotini, e i commentatori social s’indignerebbero, come sarebbe “solo” una nonna, essere nonna è una cosa bellissima, come ti permetti di sminuirla, e la coda lunga della polemica ancora non si sarebbe esaurita che lei già starebbe amoreggiando con uno nuovo, più giovane e più precario della celebrità, probabilmente gay ma disposto a farsi un’estate di vegliarda per diventare carne da casting dei reality, per aumentare il proprio cachet per le ospitate nelle discoteche e le inaugurazioni di ristoranti; sarebbe disperatamente sé stessa essendo la copia di mille riassunti di tabloid su cui è già stata e scandali che ha già attraversato. Sentirebbe, come Cher nella canzone, dentro di sé qualcosa dire «non credo proprio d’essere abbastanza forte», ma a ogni dichiarazione di debolezza si alzerebbe più sconfitta e vincitrice di prima, più pronta a ricordarci che lei era resiliente quando quella parola ancora nessuno l’aveva mai sentita, che lei il concetto di monetizzare le proprie sfighe l’aveva praticamente inventato, che lei non era di quelle che invitano a credere in sé stesse, anzi, avrebbe negato anche davanti all’inquisizione quanto compiaciuta e manipolatrice e in controllo della situazione era sempre stata, giacché la sua forza era dirsi debole come le vere forti, mica fare dichiarazioni di forza come le disperatamente deboli.

Se fossi capace d’inventare un aldilà, lo inventerei con una Diana che rimira soddisfatta il mondo in cui non era necessario continuare a vivere per plasmarlo, un mondo più che mai propenso a feticizzare la fragilità, un mondo che le rende omaggio ogni giorno, in ogni dettaglio, in ogni permalosità, in ogni lacrima. Se credessi in una vita dopo la vittimizzazione e la santificazione e il congelamento nell’immagine perfetta della bionda spietatamente fragile, me la immaginerei così.

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