di Guia Soncini (linkiesta.it, 10 giugno 2022)
Questa è la storia del presidente degli Stati Uniti d’America. Anzi, no: è la storia del presidente della regione Emilia-Romagna e del sindaco di Bologna. Anzi, no: è la storia d’un influencer qualunque. Ma, diranno i miei venticinque lettori, ci sta dunque dicendo che i tre politici elencati sono degli influencer qualunque? No, cioè sì (certo che lo sono, siamo tutti aspiranti influencer), ma voglio proprio raccontarvi la storia d’un influencer qualunque, di quelli pagati dalle aziende per dire quanto sono buoni i tali beveroni dietetici o i talaltri alberghi a sette stelle. Un giorno l’influencer è di malumore: le sue storie fanno poche visualizzazioni. Ha provato tutti i trucchi che in genere attirano pubblico. Il cane coccoloso. I luoghi di vacanza fotogenici. I monologhi dolenti su qualche dramma familiare, vero o immaginario, trauma infantile, vero o immaginario, problema di salute, vero o immaginario.
Niente: le visualizzazioni non crescono. Quando l’anima del commercio non era così diffusa, una boutique per risolvere lo stallo avrebbe fatto offerte speciali: sconti, saldi, convenienze. Cosa fa, oggi, un influencer sapiente, per attirare la clientela? L’home tour. Cos’è l’home tour? Lo dice il ragionamento stesso: una visita guidata di casa sua. I suoi follower non l’hanno mai vista? Figuriamoci: la vedono tutti i giorni, come sfondo di un po’ tutto, monologhi dolenti e cane coccoloso inclusi. Ma, di solito, non c’è scritto “home tour”. Dice la leggenda che P.T. Barnum, che oltre ad aver inventato il circo ha inventato la nostra epoca, ritrovatosi con un’invendibile partita di salmone bianco, lo vendette con l’etichetta che ne assicurava preziosità ed esclusività: garantito che non diventi rosa. Con l’etichetta “home tour”, la casa è un salmone bianco: il luogo inesplorato che le folle accorrono a cliccare. Qual è la morale di questa storia? Che il pubblico è scemo? Certo, ma non solo. Che l’Internet è una giungla e non ti puoi mai rilassare? Certo, e non solo per il venditore di pasticche per la lavastoviglie al quale l’azienda di detersivi affida il proprio prodotto solo perché sa che la gente vuole vederne il cane coccoloso e la visita guidata dell’appartamento: venite per la beatitudine domestica, restate per lo sponsor.
L’altra sera Joe Biden è andato ospite di Jimmy Kimmel, la branca californiana di quell’industria che sono i programmi comici di tarda serata alla tv generalista americana. Nella non avvincentissima intervista, a un certo punto Biden ha detto la cosa che nella storia del mondo hanno detto tutti i politici che ritengono di meritare più consenso di quello che hanno, da Renzi in su: abbiamo un problema di comunicazione. Era falso, ma era vero (come peraltro dimostrava la scarsezza comunicativa di Biden proprio in quell’intervista). Era vero per molte ragioni, che sintetizzerò in: De Mita. Il giorno in cui è morto Ciriaco De Mita, mi sono ritrovata per caso a presentare il libro di Filippo Ceccarelli Lì dentro (Feltrinelli). Gli ho chiesto: ma tu te lo vedi De Mita su Instagram? Era una domanda retorica: i quarant’anni passati sono in realtà quattrocento, e ogni volta che fingiamo di rimpiangere Aldo Moro vestito da ufficio in spiaggia fingiamo di non sapere che gli «ah, che persona seria» retrospettivi diverrebbero, al presente, meme impietosi: pensate che carne di porco potremmo fare di una foto di Di Maio in spiaggia con la cravatta. Siamo in un frullatore per il quale non c’è una dottrina, perché questo tempo qui non è mai esistito prima, perché questi strumenti qui nessuno ha il manuale per usarli (anche se le aziende continuano a fare contratti di consulenza a gente che promette loro di svelare i trucchi per farli rendere al meglio: le Wanna Marchi di questo secolo sono i consulenti per i social).
E quindi, Bologna. L’altro giorno si affaccia in città un sosia di Bono, inteso come cantante degli U2. È serbo, ha un gruppo con cui fa cover degli U2, si chiama Pavel Sfera. Somiglia a Bono come io somiglio a Liz Taylor. Si fa una foto assieme a un barista, e il presente fa il proprio lavoro. Il frullatore è composto di due elementi principali. Uno è la distrazione media. Sfogliamo i social (ma anche i giornali, ma anche i libri, ma anche i contratti da firmare) con l’attenzione di pesci rossi: ah, c’è scritto che è Bono, sarà Bono, mica posso incomodarmi a notare che evidentemente non è lui. L’altro elemento è che il consulente che paghi perché ti dica cosa funziona sui social ti dice che devi postare cinque volte al giorno. È per quello che Beyoncé, che negli ultimi tre mesi ha postato due volte, ha 262 milioni di follower: perché le regole dei consulenti che paghi funzionano, sìssìssì. Non sei Beyoncé, ti dice il consulente, quindi devi bombardare i follower di trovatine, informazioni, scemenze, gesti che dimostrino che pensi a loro. E quindi: Bono. È per quello che Stefano Bonaccini e Matteo Lepore postano entrambi il loro entusiasmo per la presenza di Bono in città. Perché hanno guardato la foto con l’attenzione che riservano alle mogli quando quelle chiedono quale di due identici tubini neri stia loro meglio. E perché devono postare cinque volte al giorno. Te lo vedi, Forlani, a doversi inventare cinque stronzate al giorno, e se non ci riesce ad andare da Pippo Baudo a dirgli “abbiamo un problema di comunicazione”?