Hitler era ossessionato dal cinema

di Giovanni Zimisce (pangea.news, 17 ottobre 2017)

Dittature? Tutta una questione di cultura. Il primo impegno di un governo che non vuole cadere al primo soffio dell’opposizione è dominare la comunicazione, organizzare gli istituti culturali, asservire a sé gli intellettuali – notoriamente brava gente, gente pavida.

Leni Riefenstahl durante le riprese di “Olympia” (Wikimedia Commons)
Leni Riefenstahl durante le riprese di “Olympia” (Wikimedia Commons)

In un libro pubblicato da poco per la Harvard University Press, The Nazi-Fascist New Order for European Culture (pp. 370, $ 39.95), Benjamin G. Martin, incarnazione del ricercatore globetrotter (laureato alla Columbia, insegna a Stoccolma), espone questa tesi: il “patto” tra Fascismo e Nazismo fu essenzialmente culturale. D’altronde, i rispettivi leader, Hitler da un lato (pittore dalle ambizioni frustrate) e Mussolini dall’altro (giornalista d’assalto e scrittore di pregio: Elio Vittorini, nel 1933, quando ancora indossava la camicia nera, scriveva, riferendosi a Vita d’Arnaldo, «queste dieci pagine – è straordinario ma è così – mi ricordano le duecento del più bel romanzo, forse, di Tolstoj, del romanzo che s’intitola Infanzia»), avevano il vezzo dell’intellettuale. Tra i tanti, un esempio spiattellato da Martin è indicativo. Siamo nel 1935, Mostra del Cinema di Venezia. La Coppa Mussolini – così la dizione del trofeo, fondato nel 1932, assegnato dal 1934, soppresso dopo la Seconda Guerra – va a Casta diva di Carmine Gallone e, come miglior film straniero, ad Anna Karenina, megaproduzione hollywoodiana con Clarence Brown alla regia e Greta Garbo nei panni della donna fatale. «Mettere le mani sul cinema: questo era il primo obbiettivo culturale dei dirigenti nazisti. Goebbels e Hitler erano ossessionati, letteralmente, dal cinema, come gli adolescenti americani lo sono dai social media. Convinti che il cinema fosse il principale motore per influenzare la cultura del loro tempo, cercarono di avere il controllo della produzione cinematografica europea». Nel 1935 l’occasione è quella buona. Goebbels convince dodici nazioni a coalizzarsi in una Internationale Filmkammer, una “internazionale” della cinematografia, già, che all’italiana piglia il nome di Camera Internazionale del Film. Dapprima presieduta da un francese, nel 1941 diretta da Giuseppe Volpi, l’“internazionale” era guidata di fatto dall’asse Roma-Berlino. «La Germania aveva una posizione di preminenza, dal momento che in breve era diventata la potenza della cinematografia europea. L’Italia fascista era immediatamente alle spalle, con i suoi studi tecnologicamente all’avanguardia di Cinecittà e con la Mostra del Cinema di Venezia, il cuore delle attività dell’Internationale Filmkammer». In sostanza, «il ruolo principale dell’Internationale Filmkammer era quello di arginare la minaccia di Hollywood. Nel 1928 il 54% dei film proiettati in Francia, il 72% di quelli visti in Gran Bretagna e l’80% di quelli in Italia veniva da Hollywood». L’immaginario americano ammutolisce quello europeo. Di per sé l’azione italotedesca non è malvagia, non fosse che gli scopi prefissi più che estetici sono sontuosamente politici, di propaganda. Con l’ingresso in guerra, dal 1940, i film americani vengono vietati nei territori occupati dai tedeschi; in Italia, d’altronde, il decreto legge del settembre 1938, voluto da Dino Alfieri, Ministro della Cultura Popolare, aveva di fatto sancito l’autarchia della produzione cinematografica, impedendo alle case di produzione d’oltreoceano di proporre i loro prodotti con la facilità di prima. Il cinema è soltanto una branca del controllo esercitato da Fascismo e Nazismo sull’attività culturale. Se in Italia l’avanguardia letteraria s’era subito detta “fascista” – o anarcofascista – basti pensare a Filippo Tommaso Marinetti, in Germania l’arte che vince è quella convenzionale. «Gli sforzi di Hitler di frenare il jazz, il cinema americano, l’arte d’avanguardia, rese tutte queste opere più seducenti, pronte a irrompere nel dopoguerra» (così Robert O. Paxon in una articolessa sul The New York Review of Books). Ergo: l’arte per sua natura si ribella a ogni forma di potere. Gli artisti, magari, no. Per un posto al sole e uno stipendio fisso sono pronti a tutto, o quasi. La nota curiosa è che secondo gli studi di Martin la scienza, al contrario dei moti culturali, subì una stagione di stallo. «La Germania ha dominato il mondo della scienza prima del 1933. I tedeschi hanno ottenuto quindici Nobel tra Fisica, Chimica, Medicina, dal 1918 al 1933, più di qualsiasi altra nazione. Al posto di sfruttare questa predisposizione naturale alla scienza, Hitler la ha distrutta, imponendo il conformismo ideologico e costringendo all’esilio scienziati ebrei di genio come la fisica nucleare Lise Meitner». La cultura – Gramsci è maestro – rimbambisce le masse, la scienza no. Tranquilli, sapranno farne buon uso propagandistico, dal secondo dopoguerra, in una micidiale battaglia culturale contro gli yankee – ancora loro –, i sovietici.

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