Habemus selfie

Ansa

di Guia Soncini (linkiesta.it, 23 aprile 2025)

Forse vi ricordate di Suzanne Vega. È una cantante che fece un disco di minisuccesso quando avevo quattordici anni. La canzone più famosa si chiamava Luka, era la storia d’un bambino picchiato raccontata in prima persona. La mia preferita si chiamava Tom’s diner, era il racconto d’un tizio che in una tavola calda aspetta che venga l’ora del suo treno.

Questo però non è un articolo su Suzanne Vega, questo è un articolo su cosa è cambiato da quando il tizio dentro Tom’s diner vedeva entrare una cliente fissa, riconosciuta dal proprietario della tavola calda; su questo tempo sbandato in cui la gente ha bisogno di moltissime prove della propria esistenza, e che quelle prove siano nell’unica valuta che non si deprezza, la fama; e quindi è un articolo sulla morte di Jorge Bergoglio. Quante foto col morto del giorno avete visto nelle ultime quarantott’ore? Quasi tutte.

Io, di persone che avessero la foto col capo della Chiesa cattolica e non l’abbiano messa sui social, ne conosco solo una. Ogni foto, naturalmente, non vuol dire “sono andato in udienza dal Papa”. Non serve aver fatto una tesi di dottorato su Susan Sontag per sapere che quelle foto dicono altro. C’è quella che dice “sono stata l’amante di quest’uomo importante a lungo, ma ora la nostra relazione è ufficiale, e le relazioni a Roma sono davvero ufficiali solo quando lui ti porta la sera del primo giugno nei giardini del Quirinale, ma io ho ottenuto ancora di più: mi ha portata in Vaticano”.

C’è quella che dice “pensate sia il comico più scarso del mondo, ma sono stato ricevuto insieme ad altre centinaia di comici dal Papa e ognuno di noi ha la sua brava foto, e quasi nessuno dei ventisette milioni che seguono il mio Instagram saprà che Bergoglio conosceva le regole del mondo e sapeva che volevamo solo la foto col più famoso del mondo, e quindi ci scansava come catena di montaggio, stretta di mano sorriso foto spòstati, e quindi adesso io metto questa foto e sotto ci scrivo che sono lieto d’aver fatto ridere il morto e voglio vedere chi può smentirmi e come potrete ancora considerarmi scarso: ho fatto ridere il capo della Chiesa cattolica”.

Tutte dicono quel che dicono sempre le foto coi morti del giorno, ma anche coi vivi, in generale le foto coi famosi. C’è un intervistatore di cantanti di cui tutti ridiamo molto perché siamo gente orrendamente crudele che ride del fragile ego di uno che, per non pensare agli abissi della sua esistenza, si droga di quella dopamina che è la contiguità con la gente famosa: guardatemi, tizio che gli stadi acclamano si fa la foto abbracciato a me, sono importante. Ieri erano tutti uguali precisi a quello lì, e allo stesso tempo lui, l’originale, l’archetipo dei disperati che si fotografano coi famosi, lui essendo intervistatore di cantanti e non di pontefici, lui non aveva la foto da instagrammare: sarà stata una giornata terribile, povero.

A quattordici anni il ristoratore di Tom’s diner, quello che dice «è sempre bello vederti» alla donna che entra scrollando l’ombrello zuppo, non mi faceva alcuna impressione: non avevo abitato su questo pianeta abbastanza a lungo da sapere che incubo sia quando coloro che ti servono per fare qualcosa – prepararti il caffè, venderti il giornale, lavarti le camicie – iniziano a riconoscerti, a salutarti, a farti domande. Nei film la gente entra al bar al quale va sempre e chiede «il solito», e da piccoli ci pareva una cosa bella, buffa, è così che fanno i grandi.

Da grande, m’innervosisce il solo pensiero che un barista possa pensare di sapere di cos’avrò voglia quel giorno. Da grande, la mia idea d’inferno è il “dove sei stata” della terza mattina, se per due giorni sei andata in un altro bar a prendere il cappuccino – ma forse sono io. Forse alla gente piace essere riconosciuta, per questo sono convinti che la fama sia una roba bella e non un abisso d’infelicità e la fine di quel superpotere che è l’invisibilità.

Se non puoi arrivare a “sono io, Tizio Famoso”, la seconda scelta è “Tizio Famoso mi conosce”, “Tizio Famoso mi sorride in foto”, “Tizio Famoso mi stima”. Vale, in realtà, anche se Tizio Famoso sei tu, perché la fama ha come tutto delle gerarchie, e quando Leonardo DiCaprio mette le sue foto con Bergoglio sappiamo che in quelle foto il ruolo di Tizio Famoso non spetta a quello di Titanic, e la ragione per cui lo sappiamo è che, se l’anno scorso fosse morto quello di Titanic, Bergoglio non si sarebbe precipitato a instagrammare la foto con lui.

Mi sono appassionata alla morte come gloria di riflesso dei vivi a marzo del 2012. Era morto Lucio Dalla, e arrivò un comunicato stampa di Ligabue. Il quale, poverino, per le prime venti righe parlava di Dalla, delle canzoni di Dalla, dei dischi di Dalla, di Dalla come paroliere, di quanto erano stati importanti per lui i dischi di Dalla mentre faceva il militare. Purtroppo, le ultime cinque righe erano quelle che sarebbero rimaste nella memoria di chiunque avesse letto quel comunicato.

«Parecchi anni fa, mi arriva una chiamata sul telefono. Io rispondo ed era proprio lui. Non c’eravamo mai sentiti prima. Mi dice “Guarda, scusa se ti disturbo, ma avevo bisogno di dirti una cosa velocissima. Ho sentito la tua nuova canzone per radio e vedrai che con quella vendi settecentomila copie”. Io non feci neanche in tempo a ringraziarlo per la sorpresa che lui aveva già messo giù. Dentro di me pensavo “See, settecentomila copie… ma quando mai…”. La canzone, appena uscita, era Certe notti».

A rileggere Ligabue oggi, mi chiedo perché tredici anni fa mi fecero così impressione quelle poche righe di “il morto mi stimava tanto”, oltretutto col pudore di non concludere con “ne vendetti molte più di settecentomila”: a rileggerlo oggi, è bassissimo profilo e nessuna ridondanza dell’io. Oggi, che in mezzo ci sono stati tredici anni di “lasciate che vi racconti quant’ero importante per il morto”. Tredici anni di espansione del disastro collettivo che sono le relazioni parasociali, mentre la Psichiatria di tutto si occupa tranne che di ciò che davvero sta modificando la natura umana.

Su Wikipedia c’è il giorno esatto in cui venne scritta Tom’s diner perché, siccome la voce narrante dice che sul giornale che sfoglia c’è la notizia d’un attore «morto mentre stava bevendo», allora dev’essere il giorno in cui il New York Post mise in prima pagina la morte di William Holden. Ma certo, l’ha scritta proprio quel giorno lì, non è che una che di mestiere scrive accumuli materiale nel sottoscala della ragione per poi utilizzarlo giorni anni decenni dopo, macché, noi sappiamo tutto delle opere e delle vite degli altri, specie se famosi, noi ci illudiamo di conoscere il retroscena della scena, e solo così, con un’illusione di prossimità alla fama, ci rassereniamo abbastanza da non agitarci se il pronto soccorso non funziona e la pensione non arriverà mai.

Rispetto a ora, che l’oppio dei popoli sono le relazioni parasociali con chiunque sia un pochino più famoso di noi, era assai meno preoccupante quando era la religione, ad assolvere al ruolo d’oppiaceo. Lunedì Suzanne Vega, che probabilmente non aveva una foto con Bergoglio, ha tirato fuori un altro reperto di fama maggiore della sua. Sono nove anni – ha scritto su Twitter, o come si chiama ora – da quando è morto Prince. Procedendo poi a raccontare di quando lui le disse che Luka era una canzone pazzesca. (Vi ricordate di quando squarciagolavamo il monologo d’un bambino menato? Vi ricordate di quando dal pop non pretendevamo che somigliasse identico preciso pittato alle nostre vite, perché ci appassionasse?).

Suzanne non ha la foto con Jorge, ma ha la foto del biglietto che le scrive Prince per dirle che Luka è il brano musicale più potente che abbia sentito da un bel pezzo. Non è un reperto della loro amicizia: dice che non si sono mai incontrati, ma lei ha sempre sentito che c’era un legame. A volte, quando il morto del giorno di nove anni prima ti stimava, non ti va d’aspettare la cifra tonda dell’anniversario per dirlo.

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