di Federico Pontiggia (ilfattoquotidiano.it, 15 maggio 2014)
«Non chiamatelo DisGrace, anzi, chiamate Fanfani!». C’è spazio – si fa per dire… – anche per l’Italia che fu nel non biopic Grace di Monaco, apertura fuori Concorso del 67° Festival di Cannes e da oggi anche nelle nostre sale.
Sullo sfondo, le schermaglie tra il Principato di Ranieri III e la Francia di Charles de Gaulle impegnata su un doppio fronte: la guerra in Algeria e, appunto, le “intemperanze” dello staterello monegasco, reo di attirare le imprese galliche con un ghiotto regime fiscale. Siamo nel 1962, Ranieri III chiede aiuto a mezza Europa per non soccombere, ma nemmeno Fanfani può nulla, dunque? Al solito, cherchez la femme… Grace Kelly, che sei anni prima con Alta società di Charles Walters diede l’addio a Hollywood – e al “suo” regista, Alfred Hitchcock – per sposare Ranieri e divenire Grace di Monaco. Ma Hitch, che l’aveva ribattezzata “Ghiaccio bollente”, non demorde: raggiunge il Principato – almeno nella finzione del regista Olivier Dahan – e fa a “Gracie” una proposta che non può rifiutare, il suo prossimo film Marnie. Ma davvero Sua Altezza non può sottrarsi, tra carriera e affetti / famiglia / amore o, forse, obblighi di corte che sceglierà? Non chiamiamolo biopic, sottolinea Dahan (La vie en rose), ma la volontà di fare «un film che parla di cinema, di un’attrice» non gli ha fatto schivare la fatwa di Casa Grimaldi: il Principe Alberto, e non solo lui, si è scagliato preventivamente contro il film, che non renderebbe giustizia e verità storica a papà e mamma. Non si sa chi li abbia informati del trattamento riservato ai genitori, ma pare tanto rumore per nulla: Grace ne esce volitiva, passionata e compassionevole e «Ranieri – dice Roth – doveva amarla tantissimo». Insomma, il capo d’imputazione parrebbe la lesa maestà: «Sono triste per queste critiche. Credo che il film – rileva la Kidman – non sia cattivo con Grace o Ranieri, ma insieme capisco che i Grimaldi vogliano proteggere la privacy della madre e del padre. Eppure, la mia performance è fatta con amore». Altre critiche, meno pelose, possono farle stampa e pubblico, con la prima che non ha lesinato qualche timido fischio in proiezione a Cannes: che film è Grace di Monaco? Il focus, ça va sans dire, è sulla Kelly, sulla sua metamorfosi da star di celluloide a reggente al fianco di Ranieri, che catalizza l’eterno dissidio tra ragione e sentimento, obbligo e passione: sì, ma qui dove stanno? La ragione è la carriera che richiama e la passione quella per il principe, o viceversa? A voi la scelta, ma il film è indeciso su ben altro: l’effetto vintage, con «un’estetica ispirata – dice il direttore della fotografia Eric Gauthier – a Caccia al ladro e Il delitto perfetto» della coppia Hitch / Gracie, è estemporaneo, formalmente a buon mercato, dissolvente più del dovuto; il racconto di personaggi e fatti reali ma con le licenze del caso non esce dal guado, se non dell’inverosimiglianza storica tout court, dell’incertezza poetica; la love story ai tempi della Corte fa più torti al cuore che all’etichetta. Insomma, le magagne produttive tra Dahan e il boss Harvey Weinstein hanno lasciato il segno, ma non esauriscono le cause: la sensazione è del “né carne né pesce” e un menu vegano sulla real tavola non è oltremodo sconveniente? Senza eccessivi meriti, Kidman e Roth fanno la propria parte, con l’attrice australiana che fortunatamente pare essersi liberata dal botox (o ha cambiato spacciatore), ma Grace di Monaco apre Cannes 67 all’insegna del compromesso, non inevitabile, tra autorialità e commerciabilità. Beata l’ultima, se il box office confermerà, la prima finisce con una dissolvenza al nero, lasciando una domanda: se l’avesse diretto Wes Anderson, replicando Grace e Ranieri in stile Tenenbaum, vuoi mettere “I Royal Grimaldi”?