Gli Oscar sono l’ultima retroguardia di un pensiero liberal che nulla ha da dire

di Andrea Coccia (linkiesta.it, 5 marzo 2018)

Diciamoci la verità: quando all’alba di questa mattina abbiamo letto i nomi dei vincitori degli Oscar abbiamo pensato in tanti, almeno per un attimo, che se il mondo somigliasse a quello che raccontano gli Oscar, questo lunedì sarebbe molto meno amaro di quello che sembra, quanto meno per noi italiani che, mentre a Los Angeles annunciavano i premi, fissavamo increduli il nuovo volto di un Parlamento che queste elezioni ci hanno ridato sostanzialmente di destra, dominato dal Movimento 5 Stelle e attraversato da fortissime tensioni populiste.

Plastic Jesus & Joshua ‘Ginger’ Monroe, “Casting Couch” (Hollywood Boulevard, 4 marzo 2018)
Plastic Jesus & Joshua ‘Ginger’ Monroe, “Casting Couch” (Hollywood Boulevard, 4 marzo 2018)

Ancora una volta, al Dolby Theatre di Los Angeles è andata in scena la sfilata della nostra piccola grande bolla culturale, una bolla strana, diametralmente opposta a quello che invece raccontano le realtà politiche in giro per il mondo. È una bolla progressista e liberal in un mondo populista e reazionario, una bolla in cui il Miglior film racconta la favola d’amore di un mostro acquatico e di una immigrata muta che, aiutati da un vecchio artista omosessuale, la fanno in barba all’uomo bianco etero tutto lavoro, hamburger e famiglia, violento e trumpiano. E ancora, una bolla fermamente statunitense in cui però il Miglior regista è un messicano espatriato, appassionato di horror e fantasy, regista di colossal come Pacific Rim e di perle del cinema fantastico; in cui la Miglior attrice è una passionaria intellettuale anarco-liberale, protagonista di un film amaro, difficile e asciutto che dipinge le piccolezze della provincia dell’Impero e in cui il Miglior attore è un raffinato londinese che incarna epicamente tutta la maldestrezza e l’antifascismo di un personaggio come Winston Churchill. Battaglie cinematografiche contro la xenofobia, l’omofobia e il sessismo emergono anche dalle uniche statuette che sanno un pochino di italianità — solo un pochino. Se le sono aggiudicate la sceneggiatura di una storia di amore omosessuale nella campagna padana — tranquilli, non si è sposato nessuno — e il cortometraggio animato dell’addio al basket di un famosissimo giocatore afro-americano cresciuto in Italia — tranquilli, non gliela abbiamo mai data la cittadinanza —, trasformato per l’occasione in cartone animato. Ma fuori dal cinema, queste battaglie dove sono? Insomma, dopo 8 ore di maratona Mentana in cui abbiamo assistito al crollo della Seconda Repubblica e al rialzarsi di una Italia incattivita, retrograda e chiusa, vedere questi Oscar, ostinatamente aperti e liberali anche dopo il terremoto degli harassment e l’America di Trump, ci fa apparire ancora più lampante di quanto non dimostri l’1 per cento a Potere al Popolo e il 2,5 della Bonino come la nostra bolla, quella che si è guardata negli occhi con responsabilità e anche quella che se li sarebbe cavati, quegli occhi, sia oramai totalmente ininfluente, quanto ormai sia lontana e sconosciuta al mondo vero, quello fuori dai nostri salotti, dalle nostre bacheche e dai nostri film, quello che da oggi è dentro il Parlamento e ci governerà.

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