di Federico Pedroni (linkiesta.it, 28 aprile 2021)
Il destino ha voluto che la cerimonia di premiazione degli Oscar – rinviata causa pandemia alla fine di aprile dall’abituale posizione a cavallo tra febbraio e marzo – sia coincisa quest’anno con la tanto agognata riapertura delle sale cinematografiche italiane, almeno nelle Regioni gialle. Solitamente la consegna delle statuette rappresenta un momento di festa per gli esercenti di mezzo mondo, pronti a sfruttare il battage pubblicitario fatto di glamour e lustrini per riempire le sale con film più o meno grandi, capaci di attirare spettatori più o meno abituali. Quest’anno, però, come per tutto il resto anche per il cinema la situazione è radicalmente cambiata.
Ma lo stato di emergenza globale è l’unica ragione per cui il disinteresse generale sembra aver investito la corsa all’Oscar? Se lo chiede sul New York Times Maureen Dowd, storica firma del giornale, che in un articolo intitolato Crushed Dream Factory (La fabbrica dei sogni a pezzi) fa il punto della situazione con un tono sospeso tra acidità e ironia per arrivare a conclusioni vagamente catastrofiste. L’incipit è apocalittico: «La gente quest’anno parla molto degli Oscar. Per la precisione: del fatto che non li guarderà». E ancora: «Le stelle del cinema non esistono più. I film sono stati inghiottiti dalla tv e dallo streaming. Le sale cinematografiche sono attaccate a un respiratore». E questo respiratore, ben minaccioso anche in Italia, pare proprio che non verrà staccato grazie all’arrivo sugli schermi dei film premiati o nominati quest’anno.
Nomadland – che ha vinto come miglior film, miglior regia (Chloé Zhao, seconda donna a trionfare nella categoria dopo Kathryn Bigelow con The Hurt Locker nel 2010) e miglior attrice protagonista (Frances McDormand, qui anche produttrice, che si è guadagnata la terza statuetta, come Meryl Streep, Liz Taylor e Ingrid Bergman) – racconta la storia di una sessantenne, improvvisamente rimasta senza marito e senza lavoro, che si ritrova a vagare attraverso l’America dei reietti e dei precari vivendo sul suo camper. Una donna promettente, dell’esordiente Emerald Fennell, è una commedia (?) nera su una giovane vendicatrice di un’amica vittima di uno stupro ai tempi del college e che si è poi lasciata morire. Minari, di Lee Isaac Chung, narra la storia di una famiglia di emigrati coreani nell’Arkansas degli anni Ottanta, vista attraverso gli occhi un po’ lacrimosi di un bambino. Sound of Metal, di Darius Marder, è la storia di un batterista che sta per perdere l’udito; Mank, di David Fincher, ricostruisce la genesi di Quarto potere raccontandola dal punto di vista del suo sceneggiatore: una manna per i cinefili ma difficilmente digeribile, nel suo smagliante bianco e nero, da un pubblico meno accorto; Il processo ai Chicago 7, di Aaron Sorkin (forse il titolo più mainstream nella sua costruzione brillante), e Judas and the Black Messiah, di Shaka King – ai quali può essere accostato anche One Night in Miami, di Regina King, candidato in categorie minori –, ricostruiscono fatti di cronaca politica e di scontro sociale avvenuti negli anni Sessanta. Salta agli occhi un grande assente, che pesa come un convitato di pietra: l’intrattenimento, il cinema visto come sogno ed evasione, la leggerezza capace di farsi arte (e traino industriale verso il grande pubblico).
Le grandi istanze del nostro tempo, almeno quelle che hanno caratterizzato il dibattito culturale degli ultimi anni, sono ben presenti: il #metoo, il movimento Black Lives Matter, la nuova povertà, la rappresentazione finalmente compiuta delle minoranze, la rilettura della Storia intesa come testimonianza politica, se non militante. Quella che è stata per decenni la vetrina per vendere Hollywood al mondo, in una sequela di star inarrivabili e abiti vertiginosi – la quintessenza di uno star system ormai probabilmente estinto –, è diventata la cattedra da cui esporre la propria buona coscienza, di cittadini prima che di artisti. Ma se non si può non accogliere con favore questa nuova aderenza al ben triste tempo presente che ci circonda (quest’anno non si è parlato di #oscarsowhite non perché passato di moda ma perché i passi avanti sono sotto gli occhi di tutti), è difficile non cogliere con preoccupazione una sempre più forte distanza dal pubblico, che a volte vorrebbe essere intrattenuto piuttosto che rappresentato, blandito invece che educato.
Nell’era dell’offerta smisurata – di serie e di film su piattaforme sempre più nuove e più ricche –, Hollywood sembra preoccupata ad assorbire i fermenti della società, che, però, probabilmente stanno più a cuore a un’élite intellettuale che al pubblico di massa. E mentre le sale cinesi tornano a riempirsi grazie a Godzilla vs. Kong, la notte degli Oscar assomiglia sempre più alla serata conclusiva di un festival rivolto a coscienziosi addetti ai lavori più che a spettatori comuni. Dowd cita il conduttore televisivo Bill Maher, che mette una pietra tombale su questa Hollywood così ansiosa di mostrarsi engagée: «Le nomination agli Oscar prima ci dicevano: “Guarda che film grandiosi facciamo”. Ora ci dicono: “Guarda che brave persone siamo”». Un trionfo del contenuto sulla forma che farebbe impallidire il cinema politicizzato di decenni fa. Perché il grande vuoto, che neanche Dowd affronta pienamente, è nella regressione formale di buona parte del cinema americano contemporaneo. Certo ci sono film interessanti nel lotto dei nominati, alcuni addirittura buoni. Ma è difficile non notare quanto l’esigenza di mostrarsi inclusivi e aderenti a questo tempo di polemiche continue e meritocrazie ideologiche abbia superato e appiattito qualsiasi riflessione di matrice estetica.
In (altri) tempi di grandi sommovimenti sociali, il cinema hollywoodiano ha saputo assorbire quel che avveniva intorno a sé, reinventandosi e trasformandosi, senza mai perdere la propria capacità di costruire una macchina dell’immaginario: si pensi ai mutamenti del cinema classico verso nuove e più esigenti forme di pubblico, alla New Hollywood e al suo riflesso nei movimenti degli anni Sessanta-Settanta, all’utilizzo dei generi in maniera sovversiva durante il grande riflusso degli anni Ottanta. In questi tempi pandemici e un po’ tristi sembra invece che il cinema abbia rinunciato al suo potere di creare una rappresentazione alta e altra della realtà, capace di far ridere piangere e sognare, accontentandosi di un linguaggio che non infastidisca nessuno, che rappresenti tutti, che non prenda posizioni, fino a correre il rischio di diventare schematico e narcotizzato. Più che di far sognare, la Hollywood contemporanea sembra capace di far dormire. E questa non è una novità di cui rallegrarsi.