di Antonio Gurrado (ilfoglio.it, 3 maggio 2024)
Non conoscevo Gennarone, il rapper che ha dato della [censura] a Giorgia Meloni dal palco del Primo Maggio a Foggia, così come non conoscevo la stragrande maggioranza dei Gennaroni e dei Gennarini che per la Festa del Lavoro si sono esibiti sui palchi di tutta Italia, dal Circo Massimo a quelli minimi. Di sfuggita tuttavia ho visto agitarsi e sbraitare uno di loro – che mi assicurano essere famoso, ma per me potrebbe essere chiunque – nel rilasciare un’intervista pre o post concertone, esponendo in stato semiconfusionale una supercazzola su lavoro e democrazia, sullo sfondo degli sguardi attoniti dei componenti della sua stessa band.
I quali o non capivano l’Italiano o non capivano perché il loro leader si stesse trasformando in Luciano Lama. Del resto, ha detto Gennarone giustificandosi per l’insulsa esternazione, “se non parliamo noi artisti, chi lo dovrebbe fare?”. Ecco, il rapper foggiano ha esattamente centrato il punto: anziché cantare, suonare, dipingere, scolpire, gli artisti si sentono in dovere di parlare.
Magari fosse stato così già nei secoli scorsi! Se, invece di perdere tempo con le arti, gli artisti del passato si fossero dedicati un po’ di più ai monologhi, criticando monarchi e dogi, imperatori e papi, nonché primi ministri e grand’ammiragli e intendenti generali delle finanze, non avremmo né la Piccola serenata notturna né la Cavalcata delle Valchirie, non la Scuola di Atene né le Ninfee, non la Paolina Borghese né il Pensatore; però ci ricorderemmo tutti di Mozartone, Wagnerone, Raffaellone, Monetone, Canovone, Rodinone…