di Stefano Piri (esquire.com, 2 dicembre 2023)
Cinquantasette anni fa usciva Frank Sinatra Has a Cold di Gay Talese, l’articolo più celebre della storia di Esquire. Talese aveva trentacinque anni, era stato assunto da poco a Esquire dopo esperienze altalenanti nel giornalismo tradizionale, dove gravità e ambizione stilistica gli avevano spesso alienato le simpatie dei caporedattori («non volevo essere un giornalista delle 5 W… volevo essere un cazzo di scrittore», racconta a Esquire nel What I’ve Learned che potete leggere su questo numero).
Nella Manhattan del 1966, non è difficile immaginarlo un po’ come un personaggio di Mad Men. Al mattino in redazione, poi un pranzo a base di Martini nel West Side con qualche editor leggendario fino alle quattro del pomeriggio, il ritorno eroico e vacillante lungo la Madison ghiacciata, la sera seduto a letto a sottoporre alla giovane moglie (Nan, accanto a lui ancora oggi) l’ennesimo racconto ambizioso ma forse troppo derivativo dello stile di Hemingway o Faulkner, destinato ad essere respinto con una lettera incoraggiante ma ferma da parte del reparto fiction di qualche magazine situato a due o tre isolati di distanza da quello dove lavorava lui.
Accettò malvolentieri l’incarico di intervistare Sinatra. The Voice doveva sembrargli, se mi concedete l’ucronia, un boomer. Senza contare che, allora come oggi, passati i trent’anni gli uomini non possono che avere sentimenti ambivalenti verso chi ha più successo di loro. Ma soprattutto, come ben racconta il leggendario incipit dell’articolo, Sinatra non aveva alcuna voglia di essere intervistato. A una settimana dal suo cinquantesimo compleanno, all’apice del successo musicale e imprenditoriale («uno dei pochi prodotti americani anteguerra che resiste alla prova del tempo») era teso e laconico perfino coi membri più intimi del suo clan, figurarsi con un cronista sconosciuto. Il raffreddore era «un disturbo così comune da essere per molti trascurabile. Ma quando affliggeva Sinatra, quell’indisposizione poteva precipitarlo in uno stato d’angoscia, di depressione profonda, panico e perfino rabbia».
La situazione era scoraggiante, ma aveva anche una certa incombenza mitologica: Sinatra era un Giove ostacolato nei suoi compiti divini da un intralcio molto umano, che però alludeva a qualcosa di più grande: la sua mortalità, parola che infatti Talese non userà mai in tutto l’articolo, come fanno spesso i grandi scrittori coi veri argomenti delle loro storie. Allora come oggi la malattia, condizione democratica, era un mezzo straordinario per farci sentire vicini alle celebrità. (Oggi alcuni aspiranti famosi lo hanno capito talmente bene da costruirci su delle carriere, ma questo è un altro discorso). Così Talese ebbe l’illuminazione: non c’era bisogno di intervistare Sinatra, e anzi il silenzio di The Voice era la tela bianca su cui dipingere un affresco del mondo che intorno a Sinatra ruotava.
Il risultato gli fruttò la gloria letteraria cui aspirava, e ancora oggi è citato e scimmiottato da generazioni di giornalisti e scrittori, insegnato nelle scuole di scrittura. A rileggerlo oggi, per la verità, Frank Sinatra Has a Cold ha un sapore molto meno new journalism di quanto potremmo immaginare, e certamente non ha nulla di gonzo. È un pezzo rigoroso, informatissimo, mai frivolo, mai pettegolo, dove la prima persona non esiste e Talese si avvicina a Sinatra come facevano gli uomini una volta: senza parlarsi, per pura prossimità, con la mediazione degli oggetti – vestiti, gioielli, bicchieri – che Talese descrive minuziosamente come se dovesse preservarli per i posteri nell’imminenza di una catastrofe.
Resta un articolo impareggiabile perché ha la qualità contagiosa della grande scrittura: ti fa venire voglia di scrivere. Leggi Talese e vorresti vedere come lui: «Un bicchiere di bourbon in una mano e una sigaretta nell’altra, Frank Sinatra stava in piedi in un angolo buio del bar fra due bionde belle ma appena sfiorite, che aspettavano solo che lui dicesse qualcosa. Ma lui taceva». Vai avanti e vorresti pensare come lui: «In quella fase lui incarnava il maschio pienamente emancipato, forse l’unico in America, l’uomo che può fare tutto ciò che vuole, proprio tutto, e può farlo grazie al denaro, a una grande energia e senza nessun rimorso apparente».
Questo settembre c’è stato un book party nel West Village per l’arzillo, un po’ reazionario ma per nulla nostalgico Talese, novantuno anni, impeccabile col suo fedora in testa, gessato scuro, fazzoletto magenta al taschino. Il Washington Post, e con lui quasi tutti i giornali che se ne sono occupati, ha parlato della serata come di un re-enactment di un’epoca d’oro perduta, all’insegna di una nostalgia che pare immalinconire più i cronisti che gli attempati partecipanti alla festa, apparentemente di ottimo umore tanto nelle foto quanto nelle dichiarazioni. Poche categorie possono permettersi di vivere nel passato, l’ultima è senz’altro quella dei giornalisti. Peggio ancora quella che i tedeschi chiamano “Fernweh”, la nostalgia per un luogo dove non si è mai stati: all’errata postura, si somma l’impossibilità del fact-checking.
Il giornalismo narrativo oggi è probabilmente più in voga che nella presunta epoca d’oro di Talese, solo che a praticarlo non sono i giornalisti, tantomeno quelli che scrivono: influencer, attivisti, esperti di marketing e perfino comuni utenti dei social hanno interiorizzato la lezione di Talese, magari senza averlo mai sentito nominare, e la mettono in pratica ogni giorno su una scala che, nel 1966, nessun pranzo a base di Martini avrebbe permesso di immaginare neppure al più sfrenato degli addetti ai lavori: i fatti sono cruciali, anzi si possono avere a portata di smartphone tutti i fatti del mondo, ma le notizie sono prima di tutto storie. E la prossimità al luogo dove le storie avvengono, o ai personaggi che di queste storie sono i protagonisti, è nel bene e nel male l’unica fonte di autorevolezza che chi ascolta è disposto a riconoscere a chi racconta.
L’articolo di Talese ha una patina di prestigio e autorevolezza che forse ci impedisce di riconoscerne l’attualità, come un affresco religioso rinascimentale che devi tornare a visitare molte volte per prenderci confidenza, fino a notare i dettagli di vita quotidiana che non sono molto diversi da oggi. In fondo Talese cosa fa? Va molto vicino a una persona incredibilmente famosa e le punta contro l’obiettivo dello smartphone, dalla distanza consentita ai comuni mortali ma comunque più vicino di quanto possa capitare alla grande maggioranza dei suoi follower. Gettata l’esca, si mette a parlare di cose che ci riguardano tutti, cose importanti e cose semplicemente divertenti: il locale migliore dove andare a bere a New York, il rapporto di Sinatra con la figlia e con i genitori, la smentita di qualche luogo comune sugli italo-americani e la conferma di qualche altro.
Sembra il palinsesto ben bilanciato di una serie di stories o di reel, la sola differenza è che oggi probabilmente al pubblico non servirebbe la mediazione di Talese o di Esquire: Sinatra farebbe da sé, o con un social media manager che si spaccia per lui. Oggi perfino gli italiani (popolo vecchissimo) si informano soprattutto su Internet, e secondo uno studio di Oxford la maggior parte degli utenti di TikTok e Instagram (cioè i più giovani, cioè il futuro) cercano notizie soprattutto sugli account di “personalità social”, che ritengono più autorevoli di testate e giornalisti tradizionali (i quali invece ancora orientano il dibattito su Facebook e Twitter, ma chissà per quanto).
Possiamo chiamarlo citizen journalism, osservando come una forza di movimenti come #MeToo e Black Lives Matter sia stata quella di raccontarsi da sé, con attivisti o addirittura vittime di violenze che diventavano le più autorevoli fonti di informazioni sulle proprie storie. Possiamo inveire contro le identity politics che fanno circolare sui social di bene intenzionati esponenti delle opposte fazioni sul Medio Oriente liste di giornalisti autenticamente palestinesi o autenticamente israeliani, come se non si trattasse di professionisti ma di formaggi Dop.
O ancora possiamo imitare la postura sarcastica di The Verge che ha coniato il termine fandom journalism, e racconta come qualche mese fa l’influencer Dani DMC spacciandosi per “giornalista investigativa” abbia reso virale un video in cui visitava gli stabilimenti cinesi del brand Shein e smentiva le accuse di sfruttamento dei lavoratori, salvo poi dover ammettere che si trattava di un lussuoso viaggio stampa pagato dal brand stesso. Perfino Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo, si disturba a fare dirette trafelate sull’immigrazione dal confine messicano, venendo poi definito con ammirazione da un deputato repubblicano al Congresso «un cittadino preoccupato che ha un megafono».
Tutti abbiamo imparato da Talese che non c’è notizia senza qualcuno che la racconta, non c’è una storia senza un punto di vista. Quanto a lui, inutile chiedergli qualche massima sapienziale sul presente e il futuro del giornalismo, o magari della democrazia. Risponderebbe forse con una sua vecchia battuta: «Ogni reporter scrive soprattutto nella speranza di testimoniare che lui stesso, quel giorno, esisteva».