di Paola Peduzzi (ilfoglio.it, 8 gennaio 2018)
Michael Wolff è il giornalista del momento, i paparazzi stazionano sotto casa sua dopo che ha pubblicato Fire and Fury, bestseller sul disordine della Casa Bianca, anticipando tutti i colleghi. Wolff non fa che ringraziare Donald Trump, giustamente, perché quanto fa vendere libri e giornali il presidente degli Stati Uniti, nessuno mai.L’editore Henry Holt non riesce a stampare nuove copie a un ritmo proporzionato alle richieste, Amazon, Barnes & Nobles e altre librerie consegnano ormai a due settimane, mentre circolano indisturbate le copie piratate (alzi la mano chi non ha a disposizione un pdf del saggio). Il New York Magazine, che ha pubblicato un estratto del libro, dice che ci sono stati 4,5 milioni di lettori sul sito e che il tempo medio di lettura è quattro volte rispetto al solito. Randall Hansen, autore di un libro di nove anni fa dal titolo Fire and Fury: The Allied Bombing of Germany, ha raccontato che sta vendendo anche lui moltissimo, sono tutti così smaniosi e voraci che si confondono. Il trumpismo è come una droga, non basta mai: due libri in arrivo, It’s Even Worse Than You Think di David Cay Johnston e Trumpocracy di David Frum, sono già in vetta nei preordini, secondo i dati di Amazon. Il metodo Wolff ha fatto alzare qualche sopracciglio, al netto della comprensibile invidia. Maggie Haberman, star del New York Times che ha dovuto mettere in pausa per qualche tempo il suo libro su Trump visto che il suo coautore, Glenn Thrush, è stato sospeso perché baciava a caso delle donne nei bar, ha detto alla Cnn che “ci sono dettagli fondamentali sbagliati: il racconto è concettualmente vero, ma i dettagli sono spesso falsi”. Wolff si è anche sbagliato citando sé stesso: Rupert Murdoch ha definito Trump un “fucking idiot” o un “fucking moron”? Il risultato non cambia, certo, ma l’arte sta nell’essere precisi anche quando si raccontano follie. Il più accanito contro Wolff è Gabriel Sherman, giornalista di Vanity Fair e biografo dell’ex uomo forte di casa Murdoch, Roger Ailes: per più di un anno – ha twittato Sherman – Wolff ha attaccato brutalmente i giornalisti, alimentando la sfiducia pubblica nei confronti dei media per ingraziarsi le sue fonti su Trump per poi scrivere un libro che conferma quello che altri giornalisti hanno raccontato per molto tempo. “Di fatto l’approccio di Wolff – conclude Sherman – è stato quello di mentire per cercare di trovare la verità”. Mentre Wolff diceva che la stragrande maggioranza dei media era troppo dura nei confronti della presidenza accumulava dettagli e dichiarazioni che davano ragione ai duri, e oggi dice candido: “Ho detto quello che era necessario per raccontare la storia”. Nel libro, Wolff spiega anche come ha lavorato: “Alcune volte ho lasciato che i miei interlocutori presentassero la loro versione delle cose, e lascio che il lettore le giudichi. In altri casi, in accordo con la coerenza delle cose narrate e con le fonti di cui ho imparato a fidarmi, ho definito una versione degli eventi che ho ritenuto aderente alla realtà”. Con il trumpismo e con il cosiddetto “executive disorder” di Trump (definizione meravigliosa) va a finire che i pop corn preparati apposta per la lettura vanno di traverso: se poi si ha la sventura di leggere Wolff proprio mentre si recupera il documentario su Guy Talese e il libro Motel Voyeur, si rischia di rimanere strozzati. Il metodo Wolff in realtà è già stato rodato: la biografia di Murdoch del 2008 nasceva con le stesse premesse: un accesso straordinario all’entourage del tycoon di News Corp e a lui stesso, e poi un libro che più antipatizzante di così era difficile. Le domande cui nessuno, tra critiche e sospetti, risponde sono: perché Murdoch si fece abbindolare? Perché non ha avvertito Trump del pericolo? Tra smentite e correzioni e scuse, qualcosa forse si capirà, ma la chiarezza tardiva è pressoché inutile: con tutti gli accidenti che ci ha portato il trumpismo anche questo doveva capitarci, leggere un libro dell’odioso Wolff in una notte, per poi ritrovarsi d’accordo con Sherman quando dice che “Wolff è il Trump del giornalismo”, l’accoppiata perfetta tra l’autore di un libro e il suo soggetto.