di Davide Maria Zazzini (cinematografo.it, 19 marzo 2024)
I colori, i mercati traboccanti della Nigeria, le percussioni travolgenti, l’animismo rituale, le strade polverose, le ballerine dimenanti, le case diroccate, gli abiti sgargianti, il sax e il jazz, la musica e l’utopia pacifista, l’afrobeat e il socialismo, l’antiamericanismo e la comune. La repressione e la rivolta. La musica e la politica. Musica che fu politica per Fela Anikulapo (“colui che porta la morte in tasca”) Kuti.
Artista, polistrumentista, cantante, soprattutto rivoluzionario, leader, utopista, attivista africano. Una madre femminista lanciata da una finestra, un sogno di libertà per l’Africa a ispirare il pentagramma e le performance tarantolate. Di “The Black President”, Daniele Vicari almanacca vita, morte, sogni e miracoli a ventisei anni dalla scomparsa. A unificarli la musica come rivolta contro l’America, come liberazione inconscia, connessione intrapsichica con il cuore dell’Africa e con il divino. Spirito (e) guida di un popolo, musicista e stregone, sassofonista e animista. Una figura enigmatica e leggendaria, proteiforme e inafferrabile.
Michele Avantario, regista, sceneggiatore, artista visuale, cervello musicale delle Estati Romane negli anni Ottanta, provò, per anni, anzi decenni, a rincorrere, fissare, quindi ridurre Fela in un film biografico muto e perduto. Girato (per ore e ore in 35 mm) e mai montato. Dove non è riuscito Avantario tenta Vicari. Dopo gli slargamenti espressivi tra cinema di denuncia e di genere, ritorna (ancora) al primo amore con il documentario Fela, il mio dio vivente, proiettato alla scorsa Festa del Cinema di Roma (sezione Freestyle) prima dell’approdo in sala fissato per il 21 marzo.
Il titolo, si capisce, indica il (co-)protagonista; il sottotitolo il tono ammirato, accorato, financo devozionale dell’indagine; l’aggettivo possessivo il filtro di sguardo scelto per accostarsi al macrocosmo magmatico e magnetico del musicista e degli anni Settanta. Insomma, abbiamo un regista – anche sceneggiatore con Greta Schicchitano e la moglie di Avantano, Renata Di Leone – che documenta la vita di un regista che idolatra Fela, soggetto di un film inconcluso.
Se preferite, un doc su un film scritto, girato a sprazzi e mai realizzato (per cui si mobilitò anche Bernardo Bertolucci), ma meditato, sognato, riflesso negli occhi del suo autore, ormai morto ma vivificato dalla calda voce narrante di Claudio Santamaria che ne legge il diario. Cinema come autobiografia e biografia in prima persona, cinema come etnografia (oppositiva), cinema come mistero, ma soprattutto, nella deformazione encomiastica, cinema come radiografia di un’epoca e di un ideale perduto. Come a dire, dagli anni Sessanta in poi non solo in America e in Europa si sognò di cambiare e pacificare il mondo.
Di là dei riti, del volto dipinto o gonfio di sax di Fela, delle masse vocianti di Lagos, oltre la Kalakuta dove Kuti intratteneva ventisette donne prima violentate dalla polizia e poi sposate, ecco spuntare, allora, l’Africa libera ma non liberata dal giogo colonialista. Popolosa e oppiacea (i chili di marijuana che costarono l’arresto a Fela, mogli e musicisti nello sbarco in Italia per concerti del 1984), militarista e pacifista, animista e orgiastica, rivoltosa e repressiva. Sempre e comunque in polemica con la politica americana: «in Africano la parola democrazia la pronunciamo in modo diverso “crazyness”, pazzia, pazzia demo, demo-pazzia», sogghigna Fela a Michele. A Daniele. A noi.