di Elia Alovisi (vice.com, 4 ottobre 2019)
Uno dei cartelli più in voga alle manifestazioni per il cambiamento climatico va dritto al punto e recita “There is no planet B”. Non c’è dubbio che “Siamo in 7 miliardi e siamo in Massimo Pericolo” sia più accattivante, ma a volte per colpire la mente e la pancia di chi legge è meglio dire una cosa semplice e vera: abbiamo solo questa Terra, e se continuiamo a rovinarla alla lunga moriremo tutti una terribile, terribile morte.O almeno, chi non è estremamente ricco. Nessuno sarà del tutto al sicuro quando, come dicono in inglese, la merda colpirà il ventilatore; ma i poveri saranno quelli che soffriranno prima e di più. Poi magari chi avrà un sacco di soldi potrà prendere una navicella spaziale e fondare una colonia su Marte mentre la Terra brucia, no? Perché è proprio di questo che parla il nuovo disco di un gruppo di australiani pazzi che si chiama King Gizzard & The Lizard Wizard, una delle poche band che sanno ancora usare le chitarre per fare cose fighe e innovative per un pubblico ampio.
Tutto il disco, che si chiama Infect the rats’ nest, è attraversato da un senso di disperazione ambientale. Un ragazzo senza un soldo resta sulla Terra inquinata a ingrassarsi di birra mentre, in cielo, i ricchi si costruiscono un nuovo pianeta. Allevamenti intensivi generano orde di mucche deformi mentre “l’arrogante essere umano strappa arti dal mondo”. Nel sozzume del bestiame gonfio di medicine i virus imparano a resistere agli antibiotici, così da finirci tutti una volta per tutte. E questo solo nel lato A del disco; nel secondo, un gruppo di ribelli viene scacciato dal pianeta e cerca di salvarsi colonizzando Venere. Non finisce bene.
“Passo un sacco di tempo a pensare al futuro dell’umanità e a quello del pianeta Terra. Naturalmente questi pensieri entrano nei testi”, ha dichiarato il loro frontman Stu MacKenzie parlando del disco, che è la cosa più violenta e pesante che i King Gizzard abbiano mai fatto. Hanno sempre parlato della fine del mondo, ma attraverso il filtro della fantascienza. E l’ambiente era già entrato nei loro testi recenti, nello specifico dalla prospettiva degli animali — Fishing for fishies parlava di quanto fosse un peccato pescare, Acarine era cantata dalla prospettiva di un’ape malata. È la prima volta, però, che la crisi climatica diventa il tema portante di un loro disco.
Che poi, “loro” — un po’ di chiunque. Perché la crisi climatica è una di quelle cose davvero difficili da concepire e accettare. È vera, sappiamo da decenni che c’è, ma solo ora che il tempo si fa sempre meno e una figura come quella di Greta Thunberg è entrata con prepotenza nelle nostre coscienze e nella discussione pubblica abbiamo incominciato a renderci conto tutti dell’impatto che tutto ha sul nostro pianeta, dal modo in cui ci spostiamo ai vestiti che mettiamo alle cose che mangiamo. E anche Internet stessa, e quindi — per restare in tema — quello che ascoltiamo in streaming, i video che guardiamo su YouTube, questo articolo che state leggendo.
Essendo una cosa enorme ma complessissima, divisiva e invisibile, il cambiamento climatico sfugge all’immediatezza del testo di una canzone di protesta. È qualcosa di più inaccessibile della guerra in Vietnam nel 1968, dell’apartheid in Sudafrica, della mafia nel Sud Italia — ma paradossalmente è vicinissimo a tutti noi, anche se solo in prospettiva. In guerra magari non ci andrai mai né tu né i tuoi figli, ma con la crisi climatica a un certo punto dovrai averci a che fare. E quindi è più difficile parlarne e scriverne: dalle tragedie si tirano fuori i capolavori, certo, ma è molto più difficile chiudere gli occhi, tapparsi le orecchie e fuggire dai problemi.
Escludendo le canzoni vagamente ambientaliste residue del folk dei decenni passati e le operazioni di beneficenza, c’è una grande penuria di musica che cerca di trovare un modo per riflettere la realtà della crisi climatica. Il rischio è di fare cose come Domani degli Artisti Uniti per l’Abruzzo: cose che fanno bene al mondo ma davvero, davvero cringe. Ci è cascato da poco il rapper e comico Lil Dicky, che ha fatto un pezzo per salvare la Terra che si chiama Earth ed è roba da film della Disney, se nei film della Disney ci fosse Justin Bieber che si paragona a un babbuino dicendo di essere “come un uomo, ma con il buco del culo più largo”. È davvero brutto.
Non sono brutti invece i pezzi dei King Gizzard, come quelli di altri artisti di prim’ordine che negli ultimi anni hanno provato a parlare del mondo invece che d’amore, baci, del Sole, del mare e del vento fresco dell’estate. Una è Anohni, già Antony Hegarty, che in Hopelessness è riuscita a rendere capolavori di pop elettronico d’avanguardia cose molto complesse come l’ottusità di chi minimizza l’impatto del riscaldamento globale sulle nostre vite, la brutale divisione tra esperienza umana contemporanea e natura, il senso di colpa e di impotenza di chi si sente responsabile del degrado del mondo-donna malata di cancro, nel testo della conclusiva Marrow.
Come hanno notato i nostri colleghi americani in un pezzo simile a questo, Björk sta parlando della crisi climatica senza parlare della crisi climatica almeno da un paio di album, Biophilia (“Amore per la vita”) e Utopia. I suoi testi vanno un po’ in tutte le direzioni ed è difficile trovare al loro interno un messaggio chiaro, ma l’amore per il pianeta e la natura è una calda luce che pervade tutta la sua opera — e diventa palese in Náttúra, pezzo cantato in islandese con Thom Yorke come ospite, altro musicista che scrive testi che c’entrano con l’ambiente senza dirlo esplicitamente da anni. Andate a rileggervi i testi di Idioteque, 2+2=5 e Bloom se non ve ne siete mai accorti.
Un conto però è fare canzoni che parlano dell’ambiente, un conto è farle sulla crisi climatica. C’è una lunga lista su Wikipedia di canzoni il cui messaggio è “salviamo la Terra” o “la Terra sta andando in vacca”, ma la stragrande maggioranza è stata scritta in un tempo diverso dal nostro. Non c’è un momento preciso in cui il clima si è palesato in tutta la sua incomprensibile immensità, ma sicuramente è ora. Già nel 1991, per dire, i Megadeth facevano un conto alla rovescia per l’estinzione; già nel 1984 gli Iron Maiden scrivevano dell’orologio che segna l’apocalisse. Ma oggi “estinzione” e “apocalisse” hanno un significato diverso, più vicino e inquietante. E quindi scriverne è più difficile, fastidioso.
La soluzione? Ce ne sono tre, principalmente. Dimenticarsi dei problemi e scrivere di cazzate è una, la più semplice. Prendersi male e cantare il proprio intimo in mezzo al mondo che brucia è un’altra, ed è sicuramente potente per il suo potenziale evocativo e distruttivo — “Siamo sette miliardi, frega un cazzo degli altri”, insomma. L’ultima, la più difficile, ma per questo la più bella, è trasformare la crisi climatica nel sangue della scrittura, buttare su una pagina e in una canzone le paranoie e le preoccupazioni che tutti, in un modo o nell’altro, proviamo per provare a trovarci un senso, sentirci meno soli. Ah, oppure possiamo fare la versione metal del discorso di Greta Thunberg alle Nazioni Unite e devolvere i proventi in beneficienza. Non sarà una gran cosa a livello artistico, ma almeno un minimo di bene lo fa.