di Stefano Ciavatta (esquire.com, 13 agosto 2021)
Chi ha amato Enrico Montesano si spiace ma non si sorprende nel vederlo sparato in orbita social, la peggiore, quella dell’invettiva, fatta di accuse, cospirazioni, fake news, complottismi vari su Covid, finanza e politica. Perché intravede l’ennesimo risvolto da moralista, profilo parallelo all’attore, la solitudine del satiro, anche se la verve è confusa e infelice. In queste vesti però ha sempre sofferto il rimprovero naturale del pubblico spiazzato per le oscillazioni delle simpatie politiche. Una chiesa, la sua, per troppi villaggi, ormai tutto l’arco costituzionale: sostegni, candidature, seggi, abbracci, aperture, flirt. Troppi per conservarsi saggio e inattaccabile.
È il suo Mistero buffo, a cui nessuno vuole ogni volta essere iniziato. Maverick come certi repubblicani Usa lui non è mai stato. Da noi poi l’uragano Grillo ha travolto qualsiasi altro pulpito, e ai comici è vietato arrivare secondi. Satiro nemmeno, un po’ naif invece e sempliciotta la sua causa qualunquista per essere sposata: anche il fastidio insopportabile contro i termini stranieri come lockdown e green pass è un cavallo di battaglia con cui hanno già pascolato Brignano, Giuliani, Battista. Resta fortissima la solitudine, un antagonismo contro tutti, a tratti distruttivo, sgradevole. L’attore popolare ha via via ceduto il passo a un personaggio surriscaldato che i social rendono spigoloso, inavvicinabile. Ha detto del giovane Frank Matano: “Si deve sciacquare la bocca quando parla di me, io sono un attore, non sono un comico. Deve prima imparare a ballare, cantare, recitare, fare le imitazioni, inventarsi dei personaggi e farsi 52 anni di carriera come me, più di 60 film e 10 commedie musicali”. Eccoli i famosi ritagli di un tempo glorioso. “Perché io ho corso, c’ho i ritagli” era lo sfogo polemico del Pomata, ex fantino incompreso dagli amici e dal mondo dell’ippica, nel solito Febbre da cavallo – per tutti il porto più sicuro del pianeta Montesano –, commedia di successo che però oggi non basta a illuminare la carriera da grande mattatore, quasi da mostro sacro. Quasi: qualcosa è andato storto. Dove, come, quando, perché? Mentre piovono pietre sull’attore, e fuori dalla protezione di qualsiasi anniversario, proviamo a capire.
È un fatto che dell’attore Montesano non si parli più da tempo. La dote di successo e popolarità era abbondante, copriva i decenni Settanta e Ottanta, eppure nella stagione dei recuperi, delle techetè, delle repliche, lui manca sempre, o è uno dei tanti. Al cinema nelle commedie è stato campione di incassi, da solo, in coppia, con Noschese, Celentano, Pozzetto, Manfredi, Verdone, ma nessun sodalizio duraturo. Idem per i film corali, a episodi, Qua la mano, Grandi Magazzini, Grand Hotel Excelsior, Mi faccia causa, i blockbuster dell’epoca, dove se non ci sei non esisti. Scriveva il critico Michele Anselmi su l’Unità: “Il cinema d’autore lo considera poco più di un guitto, lui ricambia la scortesia passando da un set all’altro: per lo più commedie di svelto consumo”. Dice Marco Giusti, inventore di Stracult: “nasce in tv nello stesso periodo di Villaggio e Cochi e Renato, meno colto del primo, meno strampalato dei secondi. Al cinema funziona molto nella commedia sofisticata un po’ sexy di Capitani e con Steno che lo rimette in riga, dandogli i toni romani giusti. Aveva bisogno di attenzione, una guida per non strabordare. È evidente che ha sofferto la vicinanza con tutti: non è star come Sordi, né popolare e amato da certa sinistra come Verdone. Non è l’istrione Proietti che deve piacere a tutti. Il paradosso è che Montesano era strepitoso al cinema, Aragosta a colazione, Il paramedico, mentre invece Proietti andava malissimo. È veramente un peccato”.
Anagraficamente Montesano (1945) fa da ponte tra Proietti (1940) e Verdone (1950), “bisogna partire da qui – racconta Emiliano Carli, illustratore satirico a La7 –. Proietti non era competitivo, non si è mai considerato attore di cinema, anche Febbre da cavallo in fondo è televisivo, ma ha imparato a farsi bastare le sue cose di teatro e tv. Verdone, che era l’astro nascente televisivo, è esploso al cinema, sorpassando a sinistra proprio Montesano. Gli anni Ottanta, che a Roma parevano il regno incontrastato di Montesano, diventano di Verdone. Se rivedi Asso, Zucchero miele e peperoncino, La moglie in bianco… l’amante al pepe, Cornetti alla crema, ti accorgi che pur essendo anni Ottanta hanno un sapore e una fotografia anni Settanta, mentre nei film di Verdone percepisci il cambio di decennio, una cesura rispetto a quello che c’era prima”. Uno stacco anche nei copioni: “Fino alla fine degli anni Ottanta Montesano è un personaggio di prima grandezza, tutte le sue carte erano meravigliose, ha vissuto un ventennio strepitoso – racconta l’autore tv Giovanni Benincasa – però, su Verdone hai una letteratura talmente vasta che tiene il tavolo da sola: ognuno cita le scene, i capisaldi, i personaggi arruolati. Esiste una biblioteca Verdone. Montesano non ce l’ha, complice molti film di appoggio”.
Verdone era buffo, impacciato. Rifiutava il cabaret e l’intrattenimento. Borghese, sadico, cattivo. Con i suoi personaggi, i Mimmo e i Sergio, una romanità ex novo senza padri né radici, schierati proprio contro le figurine veraci (Er Principe e Fantoni finiscono in galera) del popolo, percepito come troppo basso, truce, vicino, confidenziale, però alla fine seducente, vigoroso, brillante, da raccontare. Il pubblico apprezzò la novità e nacque la leggenda verdoniana. Montesano invece portava una nota diversa della romanità: aitante, riccioluto, a tratti impacciato ma più bello dell’impacciato invalidante alla Verdone, famelico, divertente, volenteroso, furbetto della Garbatella, svitato, furbo, mai insicuro, una specie di Mel Gibson della comicità, all’occorrenza imitatore, scuola di tip-tap nel cv, un dinamismo molto sopra le righe, insistente, a volte con l’effetto contrario di delegittimarsi. Ma al servizio di una tradizione illustre.
Tre soli film negli anni Novanta, decennio da invisibile, quattro film nel primo decennio del 2000, due nel successivo. Poi, nella città in cui l’appellativo “maestro” non si nega a nessuno, è sceso il silenzio, e non basta la foglia di fico di Febbre da cavallo: prima il calo di popolarità, poi l’inizio di una lontananza, una distanza più radicale. Se Roma è l’epicentro del suo repertorio, dall’immaginario capitolino degli ultimi vent’anni Montesano è assente: nessun ripescaggio, nemmeno una parte da grande vecchio, da fratello maggiore, da guru. Niente Suburre o Romanzi criminali, niente Sacro Gra o Jeeg Robot. Nemmeno un coatto o un ricercatore universitario fallito. Niente Boris, niente The Pills. Figuriamoci Özpetek, Sorrentino, niente posteroni affollati di Muccino. Solo Il lupo di Calvagna, assai trascurabile. Come gli acquedotti interrotti dai Visigoti, niente più acqua per il talento incontinente di Montesano. Orfana di Proietti, Roma guarda a Verdone come suo ultimo mostro sacro. Per De Sica e Brignano è ancora presto.
Possibile che il più completo di tutti resti fuori? La gavetta nella cantina trasteverina: non il Beat ’72 dove Flaiano applaudiva Carmelo Bene ma il Puff di Lando Fiorini, l’ultimo dei mohicani di una Roma (sparita) devota al Tevere e a Claudio Villa, il cabaret ristorante anni Settanta del teatro leggero italo-romanesco (che un tempo era di casa in Rai con Dove sta Zazà). La gavetta nel primissimo Bagaglino del rione Ponte, accanto a Gabriella Ferri. E poi il palcoscenico canonico, il Sistina, il teatro Stabile di Montesano. Ha detto Enrico Vanzina che “il Sistina è stata una cifra per capire Roma. Attraverso il genio di Garinei & Giovannini, di Gigi Magni, di Trovajoli, il Sistina ha monumentalizzato una Roma leggera: si possono raccontare cose drammatiche in musical, si può ridere della romanità ed essere lontani dalla grevità”. Racconta a proposito Alessio Viola, giornalista e conduttore di Sky, cultore della comicità romana: “a teatro faceva numeri pazzeschi: ballava, cantava, recitava, era un ottimo monologhista con dietro Terzoli e Vaime. I suoi exploit come Rugantino (1978) e Bravo! (1981), le perfette commedie degli equivoci come Cercasi tenore (1989) e Se il tempo fosse un gambero (1986). Ha avuto un momento in cui poteva permettersi di tutto”.
Più che con Totò e Buster Keaton, è con la Roma rugantina che contrae come un debito di riconoscenza e formazione. Paolo Panelli e Vittorio Gassman gli fanno letteralmente da padrini in un film che regge da solo, Il Conte Tacchia (1982), affresco rugantinesco portato al cinema che, però, non fa bingo come Il Marchese del Grillo di Sordi (1981). Il Marchese del Grillo, anche se il sordismo era al tramonto, lo abbiamo mitizzato perché era strepitoso – dice Benincasa –, Il Conte Tacchia ebbe successo ma non la gloria della memoria. Penso che la vera rivoluzione a Roma la fece Proietti con A me gli occhi, please nel Teatro Tenda di Molfese, una rivoluzione mai vista prima che cambiò letteralmente le carte. Il bel Rugantino di Montesano resta una rivoluzione composta”. Fuori dal copione della Roma teatrale, dà l’impressione di subire le altre romanità in scena e di non credere più alla follia del suo Pomata. La giocoleria caciarona de I due carabinieri, Il tenente dei carabinieri, Piedipiatti, non scavalca mai Tomas Milian. I nomi dei suoi personaggi cinematografici sono Glauco, Spartaco, Mario, Duilio, Fausto, Checco, Annibale, Orazio: sembrano uscire da un trattato di romanistica, ma nessuno “appoggia bene” come Manuel Fantoni. Quando poi Verdone alza l’asticella con il grande freddo di Compagni di scuola, si chiude il cerchio. Dice sempre Viola: “Montesano è rimasto l’interprete del personaggio del figlio di quella Roma tutta padri (Panelli, Fabrizi etc.) da cui farsi vedere, dei mostri sacri legati alla commedia musicale, il teatro, la rivista, il varietà. Infatti era tradizionale e tradizionalista già da giovane: si è sempre definito nipote d’arte, affascinato dai suoi miti ma mai affrontato. Perso il valore del testo di quella tradizione, si è perso un po’ anche l’interprete”. Angoscia dell’influenza, il peso dei padri: forse una cosa che somiglia molto a un grande maestro non sarà mai un grande maestro? Si rimane allievi di sé stessi?
Padrini tanti, eredi nessuno, e troppa concorrenza. Dalla linea soft Laganà, Tirabassi, Cruciani, Cirilli, Wertmüller, fino alla ferocia aggressiva muscolare di Brignano, Giuliani, Battista, i grandi sold out della risata romana degli ultimi trent’anni sono stati tutti allievi alla scuola di Gigi Proietti, chi patentati, chi imbucati dichiarati, comunque eredi. Gli devono tutto, l’idea stessa di mattatore, il one man show col suo Teatro Tenda, alla fine stremato con la camicia fradicia di sudore, il marchio di fabbrica, vedi le foto della golden age di Brignano, aloni esibiti come una medaglia. Nessuno di questi era debitore, dichiarato o involontario, di Montesano. Anche Montesano porta il suo Trash in un Palatenda, ma la città ormai parla altre lingue comiche. Sempre Viola: “Non è mai stato padre di una città, ma è rimasto figlio. Non ha mai abbracciato una nuova generazione romana, come Sordi o Verdone”. Oltre i rumors di una diffidenza e di un temperamento scorbutico, è gelosia della propria fama? Possessività del repertorio che fu? Forse col passare degli anni questo tenersi tutto dentro – la posta in palio, il successo raggiunto, il copione delle sacre radici – è diventato una solitudine così ingombrante che l’eclettismo tradizionalista del mattatore non riesce a rientrare dal portone principale? È questa la sua croce? Alberto Di Risio, autore per Panariello, relativizza: “La concorrenza c’è per tutti. Fiorello a cinquant’anni si è buttato in Rete. Sta alla capacità del personaggio sopravvivere nei marosi dello spettacolo. Non si è mai famosi per sempre perché lo si è stati una volta. Tutti vogliono rimanere mattatori. È un mestiere e le scelte non sempre sono giuste. Il pubblico non è mai facile da accontentare. Ci sono qualità che hanno fortune, e altre no: sarebbe da chiedere anche ai produttori il perché. O alla stampa: ad esempio, perché non si cita il Torno sabato di Panariello tra i grandi successi Rai?”.
Pure Proietti era dentro il canone romano, Belli-Trilussa-Petrolini, percepito come un canone alto e perduto nel tempo, ma da non deridere mai. Infatti, aprì la scuola. Per Viola “Proietti è riuscito a valorizzare il suo essere antico, Montesano invece lo ha livorizzato, ha detestato il nuovo potenziale pubblico. Era l’erede preparatissimo di qualcosa che tramontava non per colpa sua, ma ha pagato pure quel declino”. L’ambito terzo Rugantino lo farà infatti Valerio Mastandrea, uscito dal Maurizio Costanzo Show. Preparato quanto inafferrabile, Montesano nella sua stasi solitaria ha rinnegato il finale del Conte Tacchia: le porte della Roma rugantina non le ha aperte a nessuno. Per lo storico della comicità Andrea Ciaffaroni, “a differenza di Proietti, che diverte e insegna allo stesso tempo, Montesano ha preferito ballare da solo, con un vestito solo suo: non si è fatto studiare, tutto troppo personale, mai un personaggio medio alla Sordi”. Gli annali dicono che c’è stato un flop epocale, maldigerito, un punto di rottura per il mattatore. Chiamato nel 1988, dopo la conduzione scombinata e controversa di Celentano, al top televisivo della Rai, lo show nazionalpopolare Fantastico, prima serata abbinata alla Lotteria Italia, dove Montesano tira fuori tutto il suo repertorio consolidato, segna ottimi ascolti e record imbattuto di biglietti venduti. Ma nove anni dopo, chiamato a far risorgere i fasti della trasmissione, è costretto alle dimissioni in corsa. “Insuccesso conclamato, non accettò le critiche, la prese molto male, anche con la stampa”, racconta Ciaffaroni. Per Benincasa “la storia dice che per assurdo quel Fantastico di successo gli ha fatto male, ha avuto una nemesi storica nel 1997: l’alfa e l’omega, la giocata del destino. Dal record di sempre alle dimissioni”. Più duro Giusti: “Corradizzare Montesano è stato un grosso sbaglio. Proietti è riuscito a essere sia controcorrente sia istituzionale, ma il presentatore Montesano è stato un boomerang. Diventare una cosa da Rai1 non gli fece affatto bene”.
Il re della stand up comedy italiana Saverio Raimondo sostiene che il mancato recupero di Montesano è dovuto al fatto che “non è stato un innovatore, all’epoca era il controcanto alle rotture degli anni Ottanta (Grillo, Benigni, Drive In), baluardo e rassicurazione. Per famiglie. Muovendosi nel solco del varietà ufficiale, ha finito con l’aggiungere la sua faccia a una walk of fame sin troppo affollata, e di tutte eccellenze. Il fatto di essere di così largo successo ma senza un motivo personale – l’essere bravo è spersonalizzante –, lo ha condannato a una sorta di anonimato dorato”. Montesano sarà invisibile anche per i novissimi di Avanzi, come Corrado Guzzanti, altra romanità autoriale enorme che s’affaccia. “Non a caso finisce con quel Fantastico cruciale, di cui la sua pagina Wikipedia non riporta nemmeno il flop. Al sorgere di un nuovo, ulteriore canone comico, con la Rai3 di Guglielmi, e ancora le tv private a fissare i nuovi riferimenti, con Zelig che inizia proprio nel 1997, i Grillo/Benigni/Verdone diventano nuovo mainstream, e Montesano sbiadisce per sempre”. Per la corsa al Colle di mostro sacro capitolino ci vuole un po’ di understatement. Verdone saggiamente ci ha risparmiato la vecchiaia di Mimmo, Montesano cita ancora i suoi kamikaze estroversi, come il pensionato Torquato. Tutto qua? Riccardo Cassini, autore televisivo e teatrale, racconta che il mestiere è sempre una guerra con risvolti insondabili: “Volendo fare una battuta, Montesano è il Nokia della comicità. Tutti ce l’abbiamo avuto, è piaciuto a tutti. Ora no, il perché vallo a spiegare, vallo a spiegare anche a Montesano stesso. La risata ha un suo tempo, i testi vanno rinnovati, se un repertorio già lo sai non fa più ridere. Lavorando su Brignano ho capito che la base della piramide del pubblico si allarga sempre: non puoi restare lì, pur essendo nell’Olimpo, e stare fermo”.