di Guia Soncini (linkiesta.it, 30 settembre 2023)
La prima volta che mi sono interessata al concetto di “fama” ero così giovane che non esistevano i reality o i social ma esistevano le It Girl, quelle di cui i giornali anglofoni si occupavano per la loro fama pur non avendo esse un mestiere. Così giovane che c’era ancora qualcuno che non aveva sentito la barzelletta sul naufrago e Claudia Schiffer.
Così giovane che pensavo che i libri potessero spiegarmi il mondo. Comprai in lire i primi saggi sulla celebrità, ordinandoli alla libreria di via della Vite a Roma, quella dove prima di Amazon potevi chiedere i libri americani, e ci mettevano settimane ad arrivare, e li pagavi quel che ora ti costa un biglietto aereo. Ho scaffali di libri di varia natura – saggi di sociologi, memoir di gente che ha fatto mestieri collaterali alla fama, consigli di gente famosa per la propria fama – che nei decenni sono stati incapaci di spiegarmi perché alla gente vada di diventare famosa (oltre che: per i soldi). Sono forse gli scaffali invecchiati peggio della mia biblioteca, persino peggio di quelli dei romanzi rosa tedeschi che alla fine del secolo scorso pubblicava Salani perché Bridget Jones aveva convinto gli editori che i romanzi rosa ce li saremmo comprati proprio tutti. Sono invecchiati male perché nulla, negli ultimi decenni, è cambiato drasticamente quanto il concetto di fama, nulla è cambiato come la valuta più inflazionata e tuttavia più di valore che ci sia, nulla è cambiato come le modalità del vivere in pubblico da quando in pubblico viviamo tutti.
Ho, nel frattempo, chiesto come si viva con la fama a praticamente tutte le persone famose che ho conosciuto: quelle che la vivono come una malattia (poche) e quelle che la vivono come un vantaggio economico (quasi tutte, ma molte si vergognano di ammetterlo). Il famoso più intelligente che conosco dice che la fama è una figata, che la consiglierebbe a tutti, che non gli dà alcun fastidio se sconosciuti lo approcciano in tono confidenziale (che è più o meno la mia idea di inferno). Quando, a fine Novecento, leggevo molta pubblicistica americana sulla fama, una cosa che dicevano tutti i famosi era che, se sei noto, ti trovano un tavolo al ristorante anche se è tutto pieno. Secondo me è quel che intende anche l’amico mio, ma a me non riesce a venire in mente un ristorante in cui voglia mangiare così tanto da sacrificare per questo la mia preziosissima invisibilità.
So bene che l’anomalia sono io e che essere invisibili è il principale terrore di questo secolo, un secolo che ha fatto del salutare dietro l’inviato del tg un mestiere, un carattere, un’ambizione, glorificando il picchiatello che nel Novecento guardavamo come un disperato e rendendolo obiettivo sensato: guarda, c’è Tizio in tv, magari diventa persino gif; e a quel punto è evidente che ce l’hai fatta, gli sconosciuti ti conoscono, non puoi comunque chiamarli se buchi una gomma di notte ma se scendi a pisciare il cane dicono agli amici: uh, guarda, c’è Coso, hai presente? “Fame: ain’t it a bitch” è un po’ la mia domanda senza risposta, nonché il titolo di uno dei memoir intorno al tema comprati a Torri Gemelle ancora in piedi e quindi ormai del tutto inadatti a spiegare come funziona adesso, adesso che la fama è autogestita, adesso che ti raccontano tavolate incredibili in ristoranti del centro di Milano e tu pensi ma com’è possibile che fuori non ci sia uno stuolo di paparazzi, e la risposta sta fra le righe di Fabrizio Corona.
A supplire alle lacune della mia biblioteca sono arrivati, qualche giorno fa, Corona e Stefano De Martino intervistati da Francesca Fagnani. La ragione per cui non ci sono i paparazzi fuori dal ristorante milanese dove Kanye West cena con Renzo Rosso la svela Corona parlando d’altro, e in particolare delle foto di Lapo Elkann con una ragazza dopo l’incidente con una transessuale nel 2005. (Nota a margine: ora che siamo tutti famosi, ci sentiamo tutti in grado di parlare di tutto, tutti Miss America che vuole la pace nel mondo, tutti valletta scosciata ospite in quota decorativa cui Bruno Vespa chiede cosa pensi di maggioritario e proporzionale. Tutti, anche Vongola75 che – è come già la vedessi, Pizia che sono – scorre quest’articolo e s’indigna e mi chiede conto dell’uso di «incidente», stai forse dicendo che i transessuali sono incidenti, brutta tuttofobica?).
Dice Corona che per quelle foto di Lapo si fece dare da un giornale duecentoventimila euro, chiede Fagnani se adesso riuscirebbe a farsi pagare quella cifra, e Corona dice che lo scoop più vertiginoso che si possa oggi immaginare i giornali lo valutano tremila euro. E nella distanza tra duecentoventi e tre c’è ogni spiegazione possibile del perché, se il marito della Ferragni raggiunge a cena Renzo Rosso e Kanye West, non ci sia alcun paparazzo a immortalarli (e alcun cronista a chiedersi in che lingua si svolga la conversazione a quel tavolo): chi lo paga, il paparazzo appostato per intere sere? A chi conviene, se tanto il marito della Ferragni pubblicherà prima o poi una foto fatta col telefono e il giornale farà quel che fanno ormai i giornali, cioè rilanciare l’Instagram dei famosi?
Ma la cosa più interessante sulla fama che dice Corona alla Fagnani non è il listino prezzi delle foto nell’epoca in cui ci paparazziamo da soli. La cosa più interessante è il momento in cui spiega che suo figlio è nato – nel 2002 – perché lui e la madre avevano bisogno d’un’evoluzione per restare interessanti presso quello che ancora esisteva allora: il sistema dei rotocalchi, della fama gestita da altri e non da sé stessi, della notiziabilità. Perché, anche prima che venisse inventata la letale parola “contenuti” che nel Grande Indifferenziato può indicare un film di Scorsese o te che ti trucchi su TikTok, tutto era “contenuto”, per chi di fama viveva; e i bambini sono sempre stati un contenuto particolarmente decorativo e appetibile, da un punto di vista fotografico una vacanza alle Maldive che dura anni.
È, peraltro, un dettaglio che è rimasto identico: quale fosse il prossimo passo della famiglia Ferragni per restare rilevante è un tema che si è dibattuto molto fino a ieri. Il cane, sì, e poi? Un altro figlio? Il divorzio? Finché, ieri, il dibattito ha preso una piega inaspettata. Giovedì Chiara Ferragni ha pubblicato una foto della propria mano che stringeva quella d’un’amica, scrivendo che l’amica era tornata di fretta con lei da Parigi perché lei aveva un’emergenza familiare. L’emergenza, dicevano i notiziari di ieri, era che il marito era stato operato d’urgenza di ulcera. Lui stesso ha poi confermato su Instagram (sempre perché quello del pettegolezzo è un mestiere finito: i contenuti nostri li raccontiamo da soli) d’avere due ulcere e d’essere stato salvato dai medici.
Ma intanto le varie Vongola75 erano indignate con la Ferragni: e tu, con tuo marito che sta male, ti metti a creare contenuti per Instagram, moralizzavano mentre il loro contenuto moralizzatore prendeva cuoricini. Pensavo ai cinque secondi necessari per fare una foto a due mani e postarla, quei cinque secondi in cui la Ferragni avrebbe in effetti potuto operare qualcuno a cuore aperto. Pensavo a quel giornalista famoso che in tv si è indignato per il tweet di Giorgia Meloni sullo spot Esselunga, trovando inaccettabile ch’ella trovi il tempo di fare un tweet; un tempo, specificava, che spesso non ho io che pure non governo il Paese. Pensavo alla vita extraconiugale del giornalista, nota un po’ a chiunque, e a come plausibilmente essa impegni più tempo che fare un tweet. E pensavo anche che, se non fossimo tutti famosi, io non saprei così tanti dettagli di con chi uno che non conosco tradisca la moglie.
Ma, soprattutto, pensavo alla barzelletta in cui un qualunque tizio si accoppia per settimane con Claudia Schiffer dopo che sono naufragati insieme su un’isola deserta. Poi, giacché ciò che non è noto non è successo davvero, le fa mettere i propri vestiti da uomo, finge che sia un amico con cui passeggia sulla spiaggia, e dice: oh, ma non sai, mi scopo la Schiffer. Pensavo a Stefano De Martino. Che alla Fagnani ha raccontato un episodio accaduto all’inizio della sua storia sentimentale con Belen Rodriguez, quando lei era già Belen e lui un ballerino di Amici meno noto. Fanno un incidente in moto, lui si rompe qualunque cosa, lei si sloga una caviglia. Al pronto soccorso, tutti i primari si affollano al capezzale di lei. Sulla sua barella, il trascurato De Martino è accudito solo da un infermiere, che a un certo punto, col tono del naufrago, gli dice: oh, ma non sai chi c’è dietro quella tenda. La fama te la dà, la fama te la toglie. Sia l’oggetto la prenotazione al ristorante, l’attenzione dei medici, o l’approvazione di Vongola75.