di Daniela Lanni (lastampa.it, 30 agosto 2023)
Cantanti contro politici. Uno scontro che si ripete da anni, ogni volta che arriva la stagione elettorale e il candidato di turno utilizza il brano del proprio artista o band preferita come colonna sonora della propria campagna. L’ultimo match vede protagonisti il multimilionario biotecnologico e potenziale candidato repubblicano americano Vivek Ramaswamy ed Eminem.
I fatti risalgono allo scorso 23 agosto, quando, durante un comizio in Iowa, Ramaswamy ha intrattenuto i suoi sostenitori cantando Lose yourself, celebre brano del rapper di Detroit, che con i politici repubblicani non ha mai avuto un buon rapporto. Il video della sua performance non è passato inosservato, tanto che, dopo poche ore, lo staff legale di Eminem è subito intervenuto. Il cantante ha chiesto formalmente a Ramaswamy di smettere di usare la sua musica durante i suoi comizi.
Immediata anche la replica dello staff del giovane candidato repubblicano che, tra l’altro, prima di diventare un imprenditore di successo e candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti, sognava una carriera proprio nel mondo del rap. A malincuore Ramaswamy ha accettato, ma in un comunicato il suo portavoce ha spiegato: «Vivek è semplicemente salito sul palco e si è lasciato andare. Con dispiacere del popolo americano, dovremo lasciare il rap a The Real Slim Shady». Insomma, a nulla è servito il fatto che il giovane candidato repubblicano abbia definito il rapper «un’ispirazione» in un’intervista a Politico. Eminem è stato molto chiaro e non ha concesso sconti al suo fan. La sua musica non si usa a fini politici.
Ma quanto è accaduto tra Ramaswamy ed Eminem è solo l’ultimo caso e si aggiunge a una lunga lista di figure politiche che hanno subito l’ira di star del rock, del pop e del rap. Partiamo da Bruce Springsteen che, a metà degli Ottanta, ha proibito all’allora presidente Ronald Reagan di farsi accompagnare nelle sue uscite elettorali da Born in the Usa. Il Boss, da sempre vicino ai democratici, non voleva che in qualche modo la sua canzone si confondesse con gli ideali conservatori.
Duri attacchi li ha subiti Donald Trump durante le ultime due elezioni: artisti come Pharrell Williams, Rihanna, Aerosmith, Adele, i R.E.M., oltre agli eredi di Prince, si sono lamentati del fatto che alcuni loro brani fossero stati usati alle sue manifestazioni senza il loro permesso. I Rolling Stones hanno, addirittura, minacciato di fare causa alla campagna del tycoon qualora avesse continuato a utilizzare il loro classico You can’t always get what you want.
Brian May, il chitarrista dei Queen, ha più volte minacciato di passare alle vie legali se Trump avesse continuato a utilizzare la famosa We are the champions. Mentre Neil Young, nel 2020, ha citato in giudizio la campagna di rielezione di Trump per aver utilizzato Rockin’ in the free world e Devil’s sidewalk per quella che ha definito una «campagna antiamericana di ignoranza e odio». Infine, nonostante l’amicizia che li lega, Elton John ha vietato a Trump l’utilizzo di Rocket man e Tiny dancer.
Nel giugno del 2020, in supporto della protesta Black Lives Matter, Victor Willis, celebre voce dei Village People, ha chiesto a Trump: «non utilizzare più nessuna delle canzoni del gruppo ai tuoi comizi, soprattutto Y.M.C.A. e Macho man. Mi spiace, ma non posso più girarmi dall’altra parte». Nella lunghissima lista delle canzoni vietate a Trump è finita anche una italiana, il Nessun dorma nell’interpretazione di Luciano Pavarotti, su espressa richiesta dei suoi eredi. Sempre negli Stati Uniti, nel 1988 Bobby McFerrin ha chiesto a George H.W. Bush di non usare la sua Don’t worry, be happy. Dodici anni dopo, nel 2000, è stato Sting a vietare al figlio di Bush, George W. Bush, Brand new day. Nel 2008 Jackson Browne ha detto “no” a John McCain per la sua Running on empty.
Ma la querelle tra politica e musica non riguarda solo gli Stati Uniti. Facendo un salto nel passato, nel Regno Unito Fatboy Slim ha denunciato furiosamente l’uso di Right here, right now da parte dei laburisti alla conferenza del 2004, l’anno dopo la guerra in Iraq. Non ne è uscito indenne neanche Boris Johnson quando, nel 2021, è salito sul palco di una conferenza del Partito conservatore al suono della band indie Friendly Fires. Con sarcasmo il gruppo musicale inglese gli ha risposto: «Se Boris Johnson avesse avuto bisogno di qualcosa di edificante su cui camminare, forse avrebbe dovuto usare il suono di un banco alimentare affollato». Mentre, alla conferenza dell’anno successivo, il suo successore come primo ministro Liz Truss fece arrabbiare gli M People andando al ritmo del loro successo Moving on up.
E in Italia? Ovviamente non mancano nel nostro Paese polemiche simili. Un cantante che si è scontrato spesso con la politica è Vasco Rossi. Il rocker di Zocca, nel settembre 2019, se l’è presa con Gianluigi Paragone, che aveva usato le parole del cantante, «C’è chi dice no, c’è chi dice no», per annunciare il suo «no» nel voto previsto sulla piattaforma Rousseau sulla possibilità di un governo formato da M5S e Pd. «C’è chi dice no lo dico io: i politici devono mettere giù le mani dalle mie canzoni!», rispose Vasco.
Tra l’altro l’artista emiliano, su Instagram, nel giugno del 2020, ha lanciato una stoccata anche a Donald Trump, definendolo un «vecchio senza dignità». Indubbio che Vasco peli sulla lingua non ne abbia. Poi c’è Fedez, che non fa mancare i riferimenti politici anche nelle sue canzoni. Sui social, nel gennaio del 2020, ha risposto a Matteo Salvini, che lo aveva tirato in ballo: «Io ero a Ibiza questa estate e faccio il rapper, tu eri al Papeete ed eri il Ministro dell’interno. That’s it». Il messaggio è chiaro: politici state lontano dalla musica, almeno se non c’è l’autorizzazione da parte dell’artista a utilizzare i propri brani.