di Fabio Cavalera (Corriere della Sera, 28 luglio 2012)
L’inchino della bandiera alla regina: è questo il punto di svolta possibile della storia olimpica. E forse, simbolicamente, qualcosa di più grande della sola storia olimpica. Che cosa faranno gli americani? Abbasseranno il drappo a Stelle e Strisce davanti a sua maestà Elisabetta attorniata dalla famiglia e da ottanta fra capi di Stato e di governo arrivati in bus? La signora dei Windsor è la star di questi Giochi: chi l’avrebbe mai detto che proprio lei si prestasse a una scena con James Bond, Daniel Craig in smoking. La seria, impassibile sovrana che nella magia della cerimonia inaugurale diventa attrice e nella finzione di un filmato viene scaraventata giù da un elicottero assieme a 007: il suo ingresso (vero) nello stadio è preceduto da un trucco cinematografico a effetto. Elisabetta si è superata.
E allora, di fronte a una regina così è giusto l’inchino della bandiera da parte della prima potenza al mondo? Non è una decisione passeggera e futile. O gli Stati Uniti danno un colpo mortale alla loro fierezza nazionale e si lasciano travolgere dall’autorità di una regina ottantaseienne più popolare che mai, oppure sfregiano l’anno magnifico di Elisabetta, trascorso fra trionfi, riconoscimenti e soddisfazioni. Tutto è nelle mani e nella testa della bionda schermitrice Mariel Zagunis, la sciabola d’oro di Atene e di Pechino, che a Londra sventola, sul finire della cerimonia inaugurale, i colori prestigiosi della sua patria, alla testa di uno sconfinato plotone di campioni. Sì, un lieve inchino. Senza esagerare. Ma la tradizione è rotta, chissà se per sempre.
Costume e politica s’intrecciano in questa nottata di festa e di potere esibito. «Non ci pieghiamo mai, tanto meno di fronte a un monarca». È una vecchia tradizione, un motivo di orgoglio, un modo per ricordare che gli Stati Uniti sono la locomotiva dell’Occidente. Sono gli unici che se lo permettono: ai Giochi, nelle cerimonie inaugurali, gli atleti passano davanti alle tribune dove si raccolgono i capi di Stato e, in omaggio al Paese che ospita l’evento, il portabandiera piega l’asta col vessillo. Riconoscenza, educazione, fair play diplomatico. Ma è dal 1936 che gli Usa hanno adottato il loro codice d’onore: sotto gli occhi di Hitler, a Berlino, il pallanuotista e nuotatore Wally O’Connor, che guidava la delegazione, tirò diritto per manifestare il sacrosanto disprezzo. Da allora, persino nelle edizioni di Los Angeles nel 1984 con il repubblicano Ronald Reagan sugli spalti e di Atlanta con il democratico Bill Clinton a tifare, le Stelle e Strisce non si sono mai più flesse per l’omaggio. Emulate poi, qualche volta, dall’Unione Sovietica. Mai da meno.
Oggi, nel royal box del nuovo stadio di Stratford, costato 500 milioni di sterline, c’è però una signora che sta celebrando il suo anno magico: il sessantesimo compleanno di corona, accompagnato da un viaggio storico di riconciliazione in Irlanda a Dublino e nell’Ulster a Belfast. La famiglia dei Windsor si è riconquistata i favori e le simpatie dei sudditi con un’accorta politica di immagine e di prudenza. È l’Olimpiade di Londra. Ma è pure l’Olimpiade di Elisabetta, sovrana che ha consegnato le chiavi di governo a dodici primi ministri; e sono tredici se aggiungiamo Winston Churchill che era in carica quando lei succedette al padre Giorgio VI, il re balbuziente. È la custode suprema della storia britannica del XX secolo e di questo scorcio di XXI. Nel 1948, alla seconda edizione olimpica londinese, “Lilibeth” era sugli spalti, principessa appena sposata. I britannici si erano autotassati, rinunciando a qualche tessera di razionamento, per regalarle il vestito nuziale coperto di perle. E nel 1976 col suo Filippo inaugurò i Giochi di Montréal, essendo il Canada membro del Commonwealth e la regina capo di Stato del Canada. Conobbe lì, di persona, Muhammad Ali, Cassius Clay non più atleta olimpico, e gli chiese, dimostrandosi informatissima, come stava la sua gamba infortunata.
Anche in quella occasione la bandiera americana passò senza piegarsi. Informalmente, ma molto informalmente, è stato sussurrato agli americani che sarebbe gradito rompere la tradizione e che sarebbe gentile una testimonianza di rispetto. Una cosa del genere ribalta un pezzo di storia olimpica. Nel 1936, lo abbiamo sottolineato, gli Stati Uniti sfidarono la prepotenza e la violenza dei nazisti. Ma già prima avevano sperimentato il rifiuto dell’inchino. Nel 1908, ancora a Londra, il discobolo Ralph Rose, di origini irlandesi, sollecitato dai compagni sensibili al richiamo dell’indipendentismo dublinese dalla corona, aveva tenuto alta la bandiera passando davanti a Edoardo VII. Una provocazione, per gli inglesi. Un gesto di ribellione contro l’imperialismo di Londra. A quel Ralph Rose, un amico che gli stava proprio dietro, il poliziotto Matthew McGrath e lanciatore del martello, sibilò: «Non abbassarla o stasera ti ritrovi sul letto di un ospedale». Stranamente nel 1912 a Stoccolma, gli Usa cambiarono idea, rendendo felice re Gustavo V. Ritornarono sui loro passi ad Anversa. E si ricredettero a Parigi.
Insomma, le idee erano confuse. Fino a che arrivò Berlino. Le tradizioni di una grande potenza possono cambiare. O devono cambiare. Elisabetta si è riabbracciata con Michelle Obama che aveva conosciuto due anni fa e ha poi ospitato con le figlie a Buckingham Palace, stabilendo un feeling mai avuto con nessuna altra first lady. È una «relazione speciale», la loro. Ma questa volta Londra si aspetta qualcosa di più di un omaggio personale, forte, sincero e bello. Conta la bandiera che passa a mezzanotte davanti ai Windsor. È un atto che o diventa storia o diventa sgarbo. Sgarbo a Elisabetta attrice con 007 e star. Sgarbo a Londra, la città che dopo la guerra, nel 1948, si caricò la responsabilità di regalare di nuovo al mondo e in tempi difficili le Olimpiadi. Una via di mezzo. Non un inchino accentuato. Ma un inchino accennato, lieve. Non il portamento marziale di sempre. Elisabetta li ha convinti. E piegati.