di Luigi Sanlorenzo (linkiesta.it, 26 settembre 2020)
Le favole più belle sono quelle che più fanno paura. Fin dalla preistoria i cavernicoli si riunivano davanti ad un fuoco precario per raccontare di belve feroci a cui erano riusciti a sfuggire o che erano stati capaci di affrontare utilizzando in entrambi i casi quell’unica risorsa che li distingueva da essi e che più tardi qualcuno avrebbe chiamato logos cioè calcolo, pensiero, ragione. Quel rito ancestrale fu per millenni l’unica forma di educazione per i più piccoli e per i giovani che presto sarebbero stati ammessi alla comunità degli adulti, dopo complessi riti di passaggio.L’elemento emozionale che teneva il filo della narrazione era sempre la paura che cresceva, episodio dopo episodio, sino a raggiungere il parossismo da cui, quasi sempre, il lieto fine avrebbe liberato con un sospiro di sollievo, preludio di una notte serena. Poiché da sempre l’uomo ha bisogno di guardare il buio per amare la luce mobilitando il meglio di sé. Oggi qualcosa sembra essersi rotto e diventa urgente porvi rimedio. Attraverso le favole, anche le più granguignolesche, le giovani generazioni apprendevano la differenza tra ciò che era bene e ciò che era male, tra ciò che condannava e ciò che salvava, formando così quel nucleo morale (dal latino mos – moris) che diventava appunto il costume e poi, stratificandosi nel tempo, la cultura di un determinato gruppo sociale. Sorrido quando spesso vedo utilizzare con disinvoltura i termini “etica” e “morale” scambiandoli a piacimento. Mentre la morale è una pratica messa in atto attraverso manifestazioni sociali molteplici e visibili, l’etica (dal greco ethos) è la riflessione filosofica che cerca di darne una spiegazione razionale. Ma questo nei talk show non lo sanno e spesso la morale diventa moralismo, assoggettandosi al destino di tutti gli “ismi”; e così l’etica va a farsi benedire altrove. Qualche volta accade anche in qualche liceo classico romano che, nonostante sia intitolato a Socrate, che ammoniva contro i luoghi comuni e il conformismo spacciati per Sapere, ama farne strame.
Dalle favole di ogni tempo e cultura, sia che attingessero al mito sia all’esperienza traslitterata nel racconto, si traeva infatti la morale e non l’etica, sfizio che millenni dopo solo Aristotele si sarebbe potuto togliere. Se lo poteva permettere. I grandi sommovimenti della Storia, le grandi trasgressioni, le rivoluzioni culturali hanno influito sulla morale e mai sull’etica, che, anche quando è violata, resta immutata perché connessa all’intrinseca natura dell’uomo, come abbiamo imparato da un curioso signore sulla cui puntualità si regolavano gli orologi della città di Köningsberg, oggi Kaliningrad. Si chiamava Immanuel Kant e non vendeva sogni ma solide proposizioni che amava chiamare “imperativi categorici”. Gli dobbiamo parecchio.
Nella cultura contadina la favola fu ancora, fino a poco più di cento anni fa, collettiva. Prendeva la forma del filò; il racconto era rigorosamente separato dal pasto serale e narrato nei fienili o nelle stalle dove, nelle sere d’inverno, si radunavano uomini e donne, bambini e vecchi, ai quali, di solito, toccava la parte del narratore perché più ricca ne era l’esperienza e quindi, ancora una volta, la morale. Di quei momenti ci rimangono i ritratti nelle sequenze di grandi film italiani quali Novecento di Bernardo Bertolucci, del 1976, e L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi, del 1978. Nella società borghese la favola divenne più intimistica, il racconto deputato ai genitori o, per i più ricchi, a balie e governanti, in camerette dedicate ai bambini, e generalmente letta da testi antichi e contemporanei la cui lista degli autori farebbe venire le vertigini anche all’uomo di Alessandria, che pure ne raccontò, ad un pubblico già più vasto, di colte e indimenticabili. Favole si raccontavano ai più piccoli perfino nei rifugi antiaerei, confidando che la paura e l’immancabile lieto fine di quelle esorcizzassero il pericolo reale che incombeva su tutti. Pare che funzionasse.
Poi venne la televisione e il racconto tornò ad essere collettivo. All’inizio tra la folla del bar di quartiere; poi condominiale, a casa dei primi utenti; infine domestico, dove alcuni programmi dell’unico apparecchio presente in salotto, a poco a poco, spostarono per i più grandicelli anche il ferreo comandamento di andare a letto “dopo Carosello”. Si derogava alla regola per consentire la visione degli sceneggiati televisivi ritenuti istruttivi e non pochi appresero dei Promessi sposi, per la regia di Sandro Bolchi nel 1967, o dell’Odissea, con Irene Papas, introdotta in ogni puntata dalla voce roca del poeta Giuseppe Ungaretti nel 1968. Avremmo dovuto attendere La conversazione su Tiresia, interpretata da Andrea Camilleri, per rivivere, cinquant’anni dopo, le medesime emozioni, e ancora oggi molti non sanno che dietro le quinte della migliore Rai, a partire dagli anni Sessanta, c’era già, ben mimetizzato tra i titoli di coda, il suo genio di sceneggiatore.
Visitai il Museo del Louvre per la prima volta nel 1966. Avevo dieci anni e non era ancora il tempo di viaggi low cost o di tour virtuali. Il salario medio mensile non superava le centomila lire e un biglietto aereo da Roma a Parigi e ritorno poteva costare anche un milione, figuriamoci poi da Palermo. Il treno impiegava oltre tre giorni e soltanto in estate qualche padre avventuroso intraprendeva interminabili viaggi in automobile (una Fiat 1100 costava 975.000 lire) che i giovani passeggeri non avrebbero mai dimenticato. Eppure visitai il Louvre, lo ricordo come fosse ieri, steso pancia a terra sul marmo del pavimento, in quel caldo luglio, davanti ad un apparecchio Telefunken che resse fieramente sino all’avvento della tv a colori. La Pyramide di Ieoh Ming Pei sarebbe stata inaugurata da François Mitterrand ventidue anni dopo, ma il mistero aleggiava da sempre nella Cour Napoléon sprigionandosi dalla sezione del museo egizio e delle altre che custodiscono i reperti mesopotamici. Un’ambientazione straordinaria per lo scrittore massone Arthur Bernède, che, nel 1925, scrisse il romanzo Belphégor, di cui curò anche la sceneggiatura nel film diretto due anni dopo da Henri Desfontaines. La fama dal testo sarebbe stata raggiunta soltanto nel 1965 con la miniserie televisiva Belphégor ou le Fantôme du Louvre, prodotta dalla Ortf con la regia di Claude Barma. Il successo fu strepitoso. Fu seguito da dieci milioni di telespettatori su quarantotto milioni di francesi, di cui solo il 40% possedeva un apparecchio televisivo. La Rai poté mandarlo in onda l’anno successivo. Lo share fu immenso, al punto di spostarne la messa in onda dal secondo canale, che non tutti ricevevano, alla prima rete nazionale. Juliette Gréco – la cui scomparsa, avvenuta giovedì scorso, ha ispirato questo articolo e di cui molti scriveranno più e meglio di me – ne fu l’indiscussa, seppur velata, protagonista.
Con Belfagor un nuovo genere televisivo aveva fatto irruzione nel palinsesto televisivo “canonico” sotto l’egida del Presidente dell’Ente Pietro Quaroni, ex diplomatico tenuto in Paesi lontani dal Ministero degli Esteri fascista, che non osò però privarsi delle sue competenze, grande esperto di politica internazionale, poliglotta e brillante conferenziere. Altri tempi, altri presidenti. L’Italia era quella del secondo governo presieduto da Aldo Moro e già aperto a Sinistra, in cui, fino ad allora, gli sceneggiati televisivi avevano sostanzialmente ricalcato la grande letteratura già consacrata. Da Il dottor Antonio a Piccole donne a Cime tempestose, Jane Eyre, Orgoglio e pregiudizio, Capitan Fracassa, Canne al vento, L’isola del tesoro, Il piccolo Lord, La Pisana, Una tragedia americana, Il mulino del Po, Mastro Don Gesualdo, La cittadella, I miserabili, Il giornalino di Gian Burrasca, Le inchieste del commissario Maigret, La donna di fiori, Scaramouche e I grandi camaleonti di cui ho scritto pochi giorni fa a motivo della stringente attualità del tema. Realizzazioni televisive di grande pregio, sovente firmate da Anton Giulio Majano, Daniele D’Anza, Edmo Fenoglio, il già citato Sandro Bolchi e Lina Wertmuller, tra i registi più noti. I personaggi erano interpretati dai migliori attori italiani, per alcuni dei quali furono il promettente esordio. In un’intervista rilasciata alla trasmissione Storie della Letteratura per Rai Scuola, Andrea Camilleri ebbe così a commentare il decennio di produzione di sceneggiati 1955-1965: «I primi sceneggiati sembrano essere una biblioteca di raffinata cultura. Molti di essi sono capolavori della letteratura mondiale che vengono adattati per la televisione e questo faceva sì che, quasi contemporaneamente, gli editori rieditassero quei libri e quindi c’era già una rispondenza nella lettura e nell’allargamento della visione culturale degli italiani».
Da quell’estate del 1966 un’inquietudine nuova cominciò a farsi strada nella televisione, come nel cinema italiano, forse figlia di quella ripresa dell’esistenzialismo del primo Novecento che, dopo anni di isolamento culturale, cominciava a filtrare anche in Italia attraverso la diffusione ad un più ampio pubblico e nelle università degli scritti di Albert Camus, Simone de Beauvoir, Franz Kafka, Emil Cioran, Nicola Abbagnano, dell’indimenticato maestro Emanuele Severino e soprattutto di Jean-Paul Sartre, per il quale Juliette Gréco divenne presto una musa e Saint-Germain-des-Près il nuovo Parnaso, che lo portò al climax con la pubblicazione nel 1945 di una propria famosa lezione dal titolo L’esistenzialismo è un umanismo. Mi sottraggo alla tentazione di approfondire il tema che ci porterebbe lontano, per analizzare invece il rapporto tra la comparsa televisiva di Belfagor e il mutamento della società italiana relativamente al nuovo sentimento della paura con cui facciamo i conti giornalmente. Per oltre vent’anni la società italiana si era data da fare per la ricostruzione, concentrando attenzione e attività su temi di estrema concretezza e pragmatismo. C’era un Paese da rifondare, industrie da riaprire, case da costruire, milioni di persone da alfabetizzare. L’esserci riusciti, con l’aiuto dei fondi del Piano Marshall, e soprattutto con l’impegno dei lavoratori e il risparmio delle famiglie, aveva tenuto lontano altre suggestioni, evitato le troppe domande inquietanti che pure restavano ctonie e represse, in attesa di una nuova eruzione. La diffidenza verso le ideologie, di cui si erano sperimentate le peggiori atrocità, il ruolo consolatorio di una religiosità in prevalenza cattolica, resa più vicina ai credenti con le intuizioni profetiche del Concilio Vaticano II, avevano tenuto lontani i demoni del dubbio e quei temi che proprio l’esistenzialismo invitava ad analizzare: la condizione umana, la paura della morte, l’oblio dell’essere e soprattutto la dimensione irrazionale, oltre i confini della rassicurate pratica religiosa, proveniente da altri mondi, da altre religioni e da altre culture che già si erano presentate negli Stati Uniti con i fermenti della Beat Generation e di cui ho già scritto a proposito di Carlos Castaneda e de Il giovane Holden di J.D. Salinger.
Il 5 settembre scorso, su Bergamonews, Claudio Carminati ha scritto: «Belfagor non è propriamente un giallo, più un misto tra poliziesco ed horror, ma quando la Rai lo trasmise la paura entrò in milioni di case e, con un po’ di retorica, la televisione non fu più la stessa; da medium consolatorio e pedagogico divenne anche il possibile veicolo di oscurità e inquietudini. I Rosacroce e le sette segrete, l’esoterismo, l’alchimia, l’antico Egitto, una donna adulta che ha una relazione con uno studentello, le droghe che rendono gli individui automi, i maestri del terrore e misteriose pietre radioattive, il tutto avvolto in una pericolosa nebbia sulfurea e diabolica. Chi, in qualunque anno sia stato nuovamente trasmesso, e vedendolo da piccolo, non è saltato nel letto dei genitori dopo una puntata? Chi pur adulto non è stato colto dal timore e dell’ansia nell’attraversare le stanze buie della propria casa dopo aver visto una passeggiata del fantasma nei corridoi semibui del Louvre, sottolineata dalle note di violino composte da Antoine Duhamel? Belfagor rimarrà per sempre l’inimitabile e irripetibile emblema delle nostre più profonde inquietudini». Quando ci si rese conto che quei nuovi sentimenti attraevano e ammaliavano i telespettatori in cerca di nuove emozioni, anche la televisione cercò di seguire l’onda con sceneggiati quali Il segno del comando, con Ugo Pagliai, Carla Gravina e la regia di Daniele D’Anza, nel 1971; A come Andromeda, con Luigi Vannucchi, Paola Pitagora e Massimo Girotti (sì, proprio il padre del Don Matteo televisivo), per la regia di Vittorio Cottafavi, nel 1972; e l’inquietante Extra, del 1976, del medesimo D’Anza, dei cui misteriosi retroscena il regista non volle mai parlare. Morì prematuramente nel 1984. La serie non fu mai replicata.
Ma il tempo degli sceneggiati italiani ormai era finito. Il pubblico vedeva ogni sera i reportage sulla Guerra del Vietnam e Oriana Fallaci, inviata con l’elmetto, ne raccontava le atrocità insieme alla rivoluzione teocratica in Iran e alla strage dei curdi iracheni, avvelenati dalle armi chimiche di Saddam Hussein. L’orrore era diventato familiare in televisione, occorreva cercarlo altrove. E fu trovato nel cinema americano, con L’esorcista di William Friedkin, del 1975, e i suoi numerosi prequel e sequel; nelle serie di X-Files, dirette discendenti di Ai confini della realtà del 1959; nel cinema italiano di Dario Argento, Lucio Fulci, Mario Bava e perfino del mite Pupi Avati con La casa dalle finestre che ridono, del 1976, che inaugurarono un fortunato filone della paura ancora variamente rappresentato dai disaster movies; e, da ultimo, dai film su epidemie, pandemie e altre sventure batteriologiche che oggi appaiono tristemente profetiche. Di quest’ultima paura che sta cambiando il mondo, lo psicoanalista Massimo Recalcati ha scritto su La Stampa del 7 maggio scorso: «È necessario abitare il tempo dell’incertezza e della paura per trovare un varco nell’incertezza e nella paura. In questo contesto di precarietà un punto mi pare certo: alla potenza inimmaginabile del trauma che ha devastato le nostre vite, bisogna rispondere con una potenza reattiva altrettanto inimmaginabile. La politica per prima. Non si pieghi alla scienza come in passato con la magistratura o con l’economia, ma sia capace d’invenzione, di pensieri grandi. Di parole all’altezza del dramma che stiamo vivendo. Impari dall’arte a trasformare le ferite in poesia, a rispondere al trauma con forme di esistenza nuove».
Già, la politica. Ma sarà in grado? «Ultimo venne il corvo» ripeterebbe oggi Italo Calvino, se solo fosse ancora tra noi. Sempre meno nascosti dalle penne nere, oggi intravediamo i volti di molti leaders del Pianeta che hanno fatto della paura l’arma più abietta. Disseminano il panico creando nemici da additare, muri da alzare, armi da accumulare, alleati da tradire, popoli interi da temere. Usano la menzogna con antichi e nuovi strumenti di comunicazione e hanno un solo sogno: rinchiudere gli individui in un’intricata matassa di odio e di risentimento di cui solo essi pensano di possedere il bandolo. Promettono come Ḥasan-i Ṣabbāḥ, il Vecchio della Montagna nella fortezza di Alamūt, agli infelici e feroci Hashīshiyyūn che ne eseguivano gli ordini intontiti dalla droga, il paradiso in terra, una volta sterminati i nemici. Gli avvoltoi della nostra libertà ci sono sempre stati, con volti e modalità multiformi, fin dal tempo di quelle caverne con il ricordo delle quali ho voluto iniziare questo viaggio nelle paure di ieri e di oggi. È possibile smascherali e sconfiggerli con un buon fuoco intorno a cui raccontare le storie che cambiano il mondo e dove, inevitabilmente, essi sono attesi da una brutta fine mentre noi da una notte senza più incubi. Ha funzionato, me l’hanno raccontato e non ho mai sognato Belfagor.