di Ida Dominijanni (internazionale.it, 14 giugno 2023)
La prospettiva della malattia e della morte ha accompagnato la vita di Silvio Berlusconi come uno spettro, o meglio come un doppio innominabile che egli allontanava da sé ed esorcizzava con ogni mezzo, dall’ottimismo illusorio dell’eterna giovinezza alla chirurgia plastica alla costruzione della propria tomba monumentale nel giardino di Arcore. Era probabilmente, come si direbbe in termini psicoanalitici, il suo fantasma fondamentale, l’ossessione rimossa che muoveva tutto il resto, come un generatore di energia piantato su un terreno franoso.
Ma si sa, tutti gli umani sappiamo e anche Berlusconi non poteva non saperlo, che quello spettro, quale che sia la sua presa sul nostro inconscio, è destinato prima o poi a materializzarsi. L’ora della fine arriva, per tutti. Una biografia politica che ha fatto epoca si chiude, senza che sia risolta una sola delle immani questioni che essa ha aperto in un Paese plasmato a propria immagine e somiglianza.
La matrioska vincente
Per soli sei mesi Berlusconi ha mancato il trentesimo anniversario della sua famosa “discesa in campo” del 26 gennaio 1994, diventata nella memoria collettiva l’evento periodizzante che segna il confine tra la (cosiddetta) prima e la (cosiddetta) seconda repubblica italiana. Nessuno dei commentatori più autorevoli credette, all’epoca, che quella dichiarazione emessa via etere dal fondatore di Fininvest – “l’Italia è il Paese che amo” – avrebbe davvero conquistato il cuore di un elettorato traumatizzato da Tangentopoli e dalle stragi di mafia, che cercava nella magistratura la via d’uscita dalle macerie del sistema politico. Invece – amor ch’a nullo amato amar perdona – lo conquistò, con la promessa di un futuro radioso che come per magia avrebbe riscattato “un passato politicamente ed economicamente fallimentare”.
Il voto del 27 marzo 1994 consegnò dunque l’Italia a Silvio Berlusconi mutandone radicalmente l’assetto politico con tre novità, incastrate l’una dentro l’altra come una matrioska vincente. Per la prima volta un partito-azienda, interamente incentrato sulla figura del leader e conformato al linguaggio della televisione commerciale e della pubblicità, irrompeva nell’arena politica. Per la prima volta questo partito – centrista, ma con riconoscibili ascendenze culturali craxiane – si alleava stabilmente con due formazioni di destra, sdoganando il partito neofascista di Gianfranco Fini, fino ad allora confinato fuori dall’arco costituzionale, e regalando uno statuto nazionale alla Lega Nord di Bossi, fino ad allora confinata in una dimensione regionale. Per la prima volta, questa coalizione di centrodestra realizzava – intestandosi un processo più largo e già in corso – la bipolarizzazione di un sistema politico che per mezzo secolo aveva funzionato su base proporzionale.
L’insieme di queste tre mosse conferì a un’avventura spiccatamente personale come quella di Berlusconi un rango sistemico, facendogli guadagnare sul campo quel ruolo di fondatore della seconda repubblica che egli non riuscirà a inscrivere nella tanto agognata quanto mancata riscrittura della Costituzione, ma che gli assicurerà una centralità più solida dei suoi quattro governi (1994-95; 2001-05; 2005-06; 2008-11) e un’influenza più duratura della sua stagione trionfante. Il che spiega perché il (quasi) ventennio successivo alla sua discesa in campo sia passato alla storia come “ventennio berlusconiano” pur essendo stato interrotto da cinque governi dell’Ulivo (dal 1996 al 2001 e dal 2006 al 2008), e perché il suo ruolo sia rimasto importante anche dopo la sua definitiva defenestrazione da Palazzo Chigi nel 2011, sotto il tiro incrociato degli effetti del sexgate, della crisi finanziaria e della condanna per frode fiscale, quando inizia irrimediabilmente la sua parabola discendente.
Impronte di granito
Se è vero infatti che l’ultimo decennio fa storia a sé (con l’ingresso in scena di un soggetto politico “né di destra né di sinistra” come il MoVimento 5 Stelle, la conseguente ancorché temporanea rottura della logica bipolare, l’alternanza di governi “tecnici” di larghe intese e di governi “populisti” trasversali), è altrettanto vero che Berlusconi ha continuato a condizionarne l’andamento, oltretutto trasformando con notevole sapienza la propria immagine di politico dell’eccezione permanente in quella più rassicurante di garante moderato (e moderatore) del sistema, fino a proporsi come candidato alla presidenza della repubblica nel 2022. Ed è vero, soprattutto, che l’assetto politico con cui ci troviamo ad avere a che fare oggi è interamente debitore di quella decisiva svolta impressa da Berlusconi alla storia politica nazionale del lontano 1994.
Per quanto trasformata da centro-destra in destra-centro, con Forza Italia in posizione minoritaria rispetto ai più estremisti alleati, la bizzarra e contraddittoria coalizione che allora venne messa al mondo è di nuovo saldamente al governo, con scarsissime speranze per il centrosinistra di scalzarla. E per quanto il sovranismo postfascista di Giorgia Meloni urti per più di un verso con la visione del mondo berlusconiana, indubitabilmente assai più gaudente e meno illiberale, nessuna delle guerre culturali di oggi – dal revisionismo storico galoppante alle professioni di anti-antifascismo, dal razzismo anti-migranti alla crociata anti-gender – sarebbe stata possibile senza lo sdoganamento delle destre radicali antiche e nuove che ha contrassegnato il ventennio berlusconiano. Ben prima dell’ascesa di Meloni, del resto, bastano i fatti di Genova del 2001, dove Fini fu il braccio armato di un Berlusconi che preferiva badare alle fioriere, per testimoniare il sodalizio tutt’altro che contingente tra due destre pure così diverse; anche se da questo punto di vista Berlusconi se ne va nel momento meno opportuno, quando avrebbe forse potuto calmierare gli spiriti bellicisti e i disegni europei della presidente del Consiglio.
Per restare al piano politico, l’impronta di Berlusconi permane peraltro, granitica, sull’intero catalogo delle forme dell’agire pubblico che con lui e dopo di lui si sono imposte sulla crisi senza ritorno della democrazia rappresentativa e partecipativa. Il partito personale e la personalizzazione della leadership, la mediatizzazione del discorso politico e la trasformazione dell’agorà democratica in arena televisiva, l’appello al popolo senza intermediazioni come cifra del populismo, l’identificazione tra il popolo e il capo e la democrazia dell’applauso, l’intreccio tra biografia personale, interessi patrimoniali privati ed esercizio della funzione pubblica disegnano la fenomenologia di una decomposizione della politica e di una deformazione della democrazia che dilagano ormai su scala planetaria, e che nel berlusconismo hanno trovato un laboratorio anticipatore e a suo modo, occorre riconoscerlo, geniale, a fronte di una sinistra distratta, nel peggiore dei casi complice e nel migliore attardata su schemi culturali usurati.
Il nocciolo insondato
E tuttavia, quando parliamo di berlusconismo, ognuno/a di noi sa che parliamo anche di qualcos’altro, di un nocciolo che rimane per molti versi insondato, che ha sedotto e plasmato la società italiana e attorno al quale si annoda tuttora il rapporto tra l’immaginario collettivo e lo spettro di un leader da tempo finito eppure tuttora incombente. Per mettere a fuoco questo nocciolo è mancata a lungo, e tuttora manca, la giusta distanza, in una società divisa verticalmente tra l’ammirazione prona e il disprezzo altero nei confronti di Berlusconi (“Ci alziamo troppo di fronte alla sua presupposta bassezza. Ci abbassiamo troppo di fronte alla sua presupposta altezza”, scrisse profeticamente Alberto Abruzzese nel 1994). Tanto meno ha aiutato questa messa a fuoco il moralismo giustizialista di cui si è nutrito un vasto fronte antiberlusconiano, pago di liquidare come escrescenza immorale e illegale un fenomeno che rinvia a trasformazioni antropologico-politiche irriducibili al trentennale duello tra l’ex premier e le procure (trentasei processi, cento avvocati al lavoro e una sola condanna definitiva tra assoluzioni, archiviazioni, prescrizioni e amnistie).
Se dall’imponente bibliografia sull’avventura biografica e politica del Cavaliere si sottraggono i troppi titoli che la riducono a colore e folklore, tre sono gli approcci critici più ricorrenti. Il primo approccio imputa a Berlusconi la sua radicale anomalia (conflitto d’interessi, leggi ad personam, attacchi reiterati alla costituzione) rispetto alla norma e alla normalità liberaldemocratica, alla faccia della “rivoluzione liberale” da lui sbandierata agli esordi. È un approccio depistante, che riporta al modello liberaldemocratico classico la controrivoluzione prettamente neoliberale che Berlusconi ha guidato in Italia e che da mezzo secolo in qua demolisce la liberaldemocrazia in tutto l’Occidente, sottomettendo la vita individuale, le relazioni sociali e l’architettura istituzionale al codice della merce e del mercato, all’etica dell’autoimprenditorialità e della concorrenza, a una concezione della libertà svincolata dalla responsabilità e dalla legge.
Il secondo approccio insiste giustamente sulla potenza dell’impero televisivo di Berlusconi nella costruzione del consenso politico, ma rischia di sottovalutare la valenza seduttiva di una operazione programmatica di trasposizione della realtà in reality e fiction che prima del voto ha cambiato la testa e la pelle di un popolo ridotto a audience, dalla capacità di discernere tra vero e falso alla sensibilità estetica. Il terzo punta il dito sullo sfondamento della proposta berlusconiana nel blocco sociale nato sulle ceneri del fordismo (piccola impresa, partite iva, lavoro cognitivo e creativo) e privo di ascolto e rappresentanza a sinistra, ma non spiega come questo radicamento originario si sia immediatamente trasformato in un consenso trasversale, nazionale e interclassista, base rocciosa di un populismo che Berlusconi ha inaugurato e che dopo di lui ha solo cambiato forma e interpreti. Nessuno di questi tre approcci, infine, spiega fino in fondo l’installazione così duratura dell’icona di Berlusconi nell’immaginario italiano, una installazione che al di là della fascinazione per il self-made man di successo e per il tycoon miliardario chiama in causa il rapporto tra le identificazioni collettive, consce e inconsce, e il profilo della leadership politica.
Un capo post-edipico
L’esperimento berlusconiano andrebbe più precisamente collocato all’incrocio fra tre tendenze: la già menzionata controrivoluzione neoliberale; il cambiamento del regime del vero e del falso, del visibile e dell’invisibile, del dicibile e dell’indicibile innescato dalla mediatizzazione della sfera pubblica; e la trasformazione dell’ordine simbolico che nella letteratura psicoanalitica va sotto il nome di eclissi della legge del padre, con le relative conseguenze sul declino dell’autorità e della legalità, e nella letteratura femminista va sotto il nome di fine del patriarcato, con le relative conseguenze sul ruolo della virilità, sulle relazioni tra i sessi e sullo stato complessivo del legame sociale.
Collocata all’interno di questa trasformazione dell’ordine simbolico, l’icona di Berlusconi acquista il profilo più preciso e più inquietante di un leader post-edipico e post-patriarcale, che non incarna la legge ma il godimento e la trasgressione, e che tenta di ripristinare il ruolo perduto di una virilità vacillante seducendo le donne con l’arma ricattatoria del potere e della ricchezza. Uno specchio riflettente ideale per un Paese che con la legalità ha sempre avuto un problema e che con la libertà femminile non ha mai fatto i conti.
È il profilo di Berlusconi che emerge dal cosiddetto sexgate, quando, grazie alla presa di parola pubblica di alcune donne, prima tra tutte l’allora moglie del premier Veronica Lario, venne alla luce il sistema di scambio tra sesso, potere e denaro che legava senza soluzione di continuità la vita privata di Berlusconi e la sua vita pubblica, accomunate dallo stesso regime del godimento, dalla stessa amoralità, dalla stessa concezione della libertà come libertà di mercato, dalla stessa convinzione che tutto si può ridurre a merce e tutto si può vendere e comprare, dalla stessa ingiunzione alla trasgressione, dallo stesso esercizio di un potere sorretto da una corte di imitatori e di ruffiani. Lungi dall’essere l’incidente di percorso secondario cui fu ridotto all’epoca e cui tuttora il coro celebrativo post mortem di Berlusconi tenta di ridurlo, il sexgate fu l’imprevisto che squarciò il velo del sistema, e per giunta all’indomani del tentativo più riuscito di Berlusconi di legittimarsi, col celebre discorso di Onna, come padre della patria.
Ma sotto quel velo squarciato non c’era un padre della patria, c’era il Papi delle “cene eleganti”. Non c’era l’identificazione conscia con un leader ricco e potente, ma l’identificazione inconscia con un trucco: il trucco di una potenza millantata, sessuale e politica, a copertura del fantasma persecutorio dell’impotenza, politica e sessuale. Il re era nudo, a denudarlo erano state le sue stesse donne, la moglie e la favorita in sequenza, e a dichiarare la sua parabola conclusa furono le centinaia di migliaia di donne scese in piazza per dire basta, ben prima che i leader europei, approfittando della sua ormai acclarata vulnerabilità, inchiodassero l’ex premier alle sue responsabilità sul debito pubblico italiano e sullo spread.
Un lutto inaggirabile
L’ultima polemica, in morte di un leader divisivo, spacca ora il Paese tra chi accetta e chi rifiuta il lutto nazionale che dovrebbe unificarlo. Sono sacrosante le ragioni di chi lo rifiuta, ma più importante a me sembra che un lutto, finalmente, si faccia. L’uomo Berlusconi muore adesso, ma il politico era finito nel 2011 ed era finito senza alcun lutto, e anche per questo politicamente non era stato sepolto ed era sopravvissuto a sé stesso per più di dieci anni: il passaggio dello scettro da Berlusconi a Monti, disposto nel 2011 dal Quirinale evitando il rito elettorale, garantì allora una transizione passiva dal carnevale del godimento alla quaresima dell’austerity, senza elaborazione di ciò che finiva e ciò che cominciava o di ciò che del passato rimaneva nel presente e nel futuro.
Come tutti i leader narcisisti che infestano la scena mondiale, Berlusconi non ha allevato successori in casa, anche se può rivendicare molti imitatori all’estero a partire da Donald Trump. Lascia un Paese che sotto la sua egemonia luccicante ha imboccato trent’anni fa una via del declino senza ritorno, una politica stravolta nella grammatica e nella sintassi, un’informazione definitivamente trasformata nei contenuti e nel linguaggio, una giustizia perennemente sotto attacco, una società modificata nel corpo e nell’anima, una erede riluttante che ambisce a siglare con un sigillo femminile il ripristino dell’ordine tradizionale dopo il disordine post-patriarcale in cui lui navigava col vento in poppa. Ma soprattutto lascia sottotraccia quell’identificazione inconscia nella maschera di una potenza che copre l’impotenza, un’identificazione depressiva che continua ad ammutolire la protesta sociale e a fare la fortuna di leader inventati, votati non per quello che sanno fare ma per come riescono a nascondere quello che non sanno o non possono fare. Elaborare il lutto della fine di Berlusconi significa farla finita con questa identificazione depressiva, e voltare finalmente pagina.