di Fabrizio Marrazzo (huffingtonpost.it, 18 marzo 2015)
Ho letto e riletto più di una volta l’intervista di Dolce e Gabbana su «Panorama». Devo dire che quando è uscita non le avevo dato molta importanza. Anzi, la cosa che più mi aveva colpito era il racconto dell’infanzia e delle origini dei due stilisti, che ben conoscevo, ma da tempo avevo l’impressione le volessero dimenticare. L’avevo trovato un racconto degno di essere letto, soprattutto per i giovani, perché oggi la comunicazione ci impone tempi e modi che non consentono più di raccontarsi, siamo nell’impero del selfie. Qui invece c’è una storia di successo costruita partendo da zero, in cui il talento e il self made sembrano aver vinto. E non è poco in tempi di azzeramento di tutto ciò che è merito. Quello che mi aveva colpito era il titolo di «Panorama», giornale che in passato aveva dedicato vari servizi e copertine alle famiglie gay. Sarà, ho pensato, «Panorama» sta prestando il fianco a nuove campagne di area berlusconiana visto che Renzi annuncia di voler fare una legge sulle unioni civili. Poi, è scoppiato il caso Dolce & Gabbana. Elton John che si infuria e lancia la scomunica sui vestiti della maison dichiaratamente gay, ma pro famiglia tradizionale, il lancio del boicottaggio, lo star system internazionale che dichiara di voler buttare dalla finestra qualche milione di euro o di dollari o addirittura di dargli fuoco. Non si parla d’altro. Addirittura Giovanardi e Formigoni, due noti politici che conoscono la moda del cannibalizzare le notizie, dichiarano che loro stanno con Dolce & Gabbana e che i gay sono talebani! Gasparri, poi, dà il via, in realtà lo fa da un po’, al mantra che i gay protestano e accusano di omofobia tutti, soprattutto quelli come lui, ma tacciono sui gay buttati giù dalle torri dai barbari dell’Isis. Giuliano Ferrara si eccita per la libertà di opinione ritrovata – certo in Italia di gente libera nell’esprimere opinioni ce n’è poca – e Sallusti e Belpietro sperano di riposizionare l’incauto Berlusconi delle foto con Luxuria verso messaggi meno libertini. Un vero tripudio di pensatori. L’unico che forse – anche se con qualche difficoltà per noi comuni mortali lettori – scrive qualcosa di sensato, almeno per chi si dibatte sul tema del rapporto tra la maternità surrogata e le donne, è Aldo Busi sul «Corriere». Per il resto se qualcuno vuol farsi notare in questi giorni – c’è più di qualche attricetta italiota che lo fa – posta sui social messaggi di fuoco contro Dolce & Gabbana, aderendo all’idea di bruciare vestiti. Un delirio, una vera isteria collettiva. Anch’io, in preda a qualche fumo prodotto dalle mutande D&G del vicino di casa, ho pensato che basta, i nemici sono loro, due gay miliardari che vendono ai gay di tutto il mondo. Ma per fortuna non ho mutande D&G da bruciare. Non amo le firme, pur non essendo un estremista anti capitalista o un no logo. E dato che in tutte le città ci sono tante persone senza tetto che necessitano di vestiti, forse si potrebbero dare a loro, invece di fare gesti come il rogo che ricordano quel medioevo dove noi gay venivamo bruciati vivi, o le dittature passate e recenti che bruciano libri, o abbattono i monumenti del passato. Nel frattempo, mentre monta la protesta, in Italia si dovrebbe andare a discutere una legge sulle unioni civili gay. La notizia passa in secondo piano. Anche se – forti del ritrovato Dolce pensiero – forse le adozioni, quelle dei figli del partner, possono essere messe in discussione. Nessuno degli agguerriti boicottatori degli stilisti in questione protesta perché la legge che vuole Renzi (o dice di volere) esclude le adozioni. E nessuno ha protestato giorni fa per il fatto che in Senato sia passata una vera e propria “porcata” che esclude dall’adozione i single affidatari di minori. Di che stiamo parlando allora? Forse di moda, forse di celebrieties o forse solo di aria fritta. O forse siamo solo noi comuni mortali che un vestito di Dolce & Gabbana non ce l’abbiamo e non facciamo notizia. Così come non ci sarebbe stata notizia se Stefano e Domenico avessero detto W i gay!