di Hamilton Santià (linkiesta.it, 6 agosto 2018)
La campagna elettorale non è finita con il 4 marzo, così come la propaganda non si è fermata con l’insediamento del nuovo governo. Ogni giorno che passa esponenti più o meno prestigiosi dell’esecutivo Lega-5S si preoccupano di alzare la temperatura della tensione con affermazioni esagerate e provocatorie su qualsiasi tema in grado di polarizzare l’opinione pubblica.Gli ultimi casi (evitando di concentrarsi sempre e solo su Matteo Salvini) vedono protagonisti il ministro Fontana che propone di abrogare la legge Mancino e la vicepresidente del Senato Paola Taverna che attacca i centri per i vaccini. Ogni giorno che passa, la dimensione mediatica mangia la dimensione politica. Questo governo vive più sui social network che non nelle aule romane, preferendo la potenza pervasiva della comunicazione alle noiose procedure burocratiche della politica come la conosciamo (con conseguenze reali come il respingimento della Open Arms, il 29 giugno scorso, senza che il ministro Toninelli avesse mai firmato un atto ufficiale: un governo che per la prima volta agisce solo ed esclusivamente su Twitter, come confermato da l’Espresso). Svuotando la politica della sua dimensione normativa, quello che resta è lo spettacolo. I tratti caratteristici della politica contemporanea, anche in Italia, sono due e sono perfettamente intrecciati. Il primo, è il populismo: qualsiasi partito non rinuncia a portare avanti uno schema retorico e narrativo iper-semplificante nemmeno quando va al governo (Marco Revelli in un libro di qualche anno fa scriveva proprio di “populismo di palazzo” in relazione a Matteo Renzi, non immune da questo spirito del tempo). Il secondo è la pervasività e l’immanenza della propaganda: non esiste un momento in cui un partito e un esponente politico rinuncino alla campagna elettorale permanente. Tutto quello che si dice, tutto quello che si fa, vive nel presente continuo (dai post su Facebook fatti per raggranellare qualche like, caricare la propria base e attaccare gli avversari; ai disegni di legge, spot che non funzionano perché mai inseriti per davvero dentro un sistema di provvedimenti utili all’idea politica di riferimento). Questa tendenza non è recente. In Italia siamo dentro questo schema di pensiero più o meno da venticinque anni, cioè dalla prima campagna elettorale di Silvio Berlusconi (a cui filosofi come Maurizio Ferraris e semiologhi come Umberto Eco dedicarono molte analisi parlando proprio, espressamente, di “populismo mediatico”). Questo è solo l’ultimo capitolo, per certi versi portato al suo massimo possibile, della politica postmoderna. Una politica completamente svuotata dei suoi tratti fondamentali per essere completamente appiattita e subalterna alle leggi dello spettacolo, della mediatizzazione e dell’aspetto performativo di leader che si comportano più come attori che non come politici. Il comportamento di questo esecutivo va valutato sulla lunga distanza, non solo per quanto riguarda le sue decisioni politiche – e di quello ce ne occupiamo diffusamente in altre sezioni del giornale – ma anche, e forse soprattutto, per le conseguenze culturali dei discorsi portati avanti in uno storytelling che non finisce mai. Dall’avallare discorsi d’odio (che si combattono non con la censura ma con le idee, questo è vero, tuttavia non si può sostanzialmente giustificarli) al delegittimare il progresso scientifico; dall’odio verso il più debole – che poi è il più povero –, che va prevaricato in ogni modo, all’inizio della riflessione sulla legittima difesa e l’uso delle armi, al solleticare gli istinti di una popolazione arrabbiata e paranoica per un consenso elettorale per sua natura volatile e debole che va a distruggere il patto sociale su cui si regge la democrazia nella sua forma tradizionale. E quello che si vede all’orizzonte, purtroppo, non assomiglia a un’evoluzione, ma a una regressione. L’enorme “dispositivo di distrazione” di questa propaganda riconfigura le categorie di pensiero attraverso cui siamo stati abituati a interpretare e leggere il mondo. La conseguenza non è solo la polarizzazione, ma anche una prevaricazione di natura tribale che porta all’annientamento. Come se all’improvviso stessimo vivendo in una di quelle distopie che abbiamo letto nei libri e visto nei film: non tecnologicamente avanzata, ma regredita a un neanderthalismo di base in cui si lotta per i bisogni primari e l’obiettivo è annientare l’altro per far sì che io possa sopravvivere. Forse, a questo punto, per capire il futuro che ci aspetta non dovremmo rileggerci 1984 di George Orwell ma La strada di Cormac McCarthy, oltre a rivederci non Blade Runner ma Mad Max e addirittura Ken Shiro.