di Maurizio Assalto (linkiesta.it, 30 luglio 2024)
Ok, non era l’Ultima Cena (anche se…). E se anche lo fosse stata, in quanto non credente non mi sarei sentito offeso e non avrei gridato alla blasfemia; anzi, devo malignamente ammettere che la provocazione mi avrebbe procurato perfino un certo divertimento, avendo la fortuna di vivere in una parte del mondo che da qualche secolo ha smesso di mandare sul rogo gli eretici e i burloni. Si può però riconoscere che è stata una invereconda pacchianata di bruttezza difficilmente eguagliabile?
De gustibus non est disputandum, si dice. E però Kant ci ha insegnato che i giudizi estetici (quelli puri, in cui non entra in gioco un interesse di chi giudica) sono dotati di una universalità soggettiva, ossia sono universalmente validi pur non essendo oggettivi, e quindi sui giudizi di bello (e correlativamente di brutto) si dovrebbe tutti kantianamente concordare.
Non sarà stata l’Ultima Cena – anche se nell’equivoco sono cadute perfino alcune delle performer coinvolte nella scena – ma sicuramente si è trattato di un brutto, scombinato pastiche. Volevamo mostrare «tolleranza e comunione», ha assicurato Anne Descamps, la responsabile comunicazione del Comité d’Organisation des Jeux Olympiques di Parigi 2024 (Cojo). E all’insegna del romanesco ’ndo cojo cojo hanno messo insieme un guazzabuglio di elementi eterogenei, raffazzonati senza criterio alcuno che non fosse dettato dalla superficialità e dall’approssimazione in salsa queer.
Dopo due giorni di polemiche, domenica ha detto la sua anche il direttore artistico della cerimonia inaugurale, Thomas Jolly. Nessun intento irrisorio verso chicchessia, ha spiegato, «credo fosse abbastanza chiaro» (no, non lo era), «l’idea era quella di creare un grande banchetto pagano legato agli dei dell’Olimpo». La figura incoronata al centro, impersonata dall’attivista Lgbtq Barbara Butch, non è Gesù ma il dio Apollo, in primo piano c’è un Dioniso pitturato (chissà perché) di verde, e tutto intorno una folla variopinta di drag queen (che non sono dodici come gli apostoli: chiaro, no…?).
Si è poi messa in moto la macchina dei soccorsi colti, che ha chiamato in causa come fonte ispiratrice, al posto del Cenacolo leonardesco, il Banchetto degli dei (per le nozze di Teti e Peleo) di un oscuro pittore olandese del Seicento, Jan van Bijlert (e al Museo Magnin di Digione, dove è esposta la tela, già si sfregano le mani, invitando su X a venirlo a vedere). Qualche somiglianza, in effetti, c’è. Ma il motivo iconografico era all’epoca piuttosto comune, per esempio si potrebbe citare una celebre Assemblea degli dei olimpici di Rubens. Soprattutto, però, (strano che non sia stato rimarcato) l’impostazione dissacrante ricorda da vicino un’opera del 2003 di David LaChapelle, guarda caso proprio The Last Supper.
Prendiamo comunque per buona l’ispirazione pagana della performance: proprio qui si spalancano le voragini. Che cosa c’entra Dioniso con le Olimpiadi? I primi Giochi Olimpici dell’antica Grecia sono fatti risalire dal mito all’eroe Pelope, che li istituì in onore di Zeus per sottrarsi a una maledizione, o secondo altre versioni a Eracle, ai Dattili, allo stesso Zeus: le varianti si moltiplicano, tra la fase orale e quella letteraria, ma Dioniso non compare mai. Giustamente, perché le caratteristiche del personaggio mal si conciliano con il rigore e l’autocontrollo richiesti agli atleti.
Ma il maestro cerimoniere ribadisce e insiste: «L’idea era una grande festa pagana, legata agli dei dell’Olimpo… Olimpo, Olimpo, spirito olimpico…». Jolly, a che gioco giochiamo? Non certo ai Giochi Olimpici. Che dal 776 a.C. al 393 d.C. si sono tenuti a Olimpia, nel Peloponneso, ed erano dedicati al re degli dei, ma il cui spirito niente ha a che vedere con il monte Olimpo e i suoi divini abitatori, distanti in linea d’aria circa quattrocento accidentati chilometri: percorribili in un amen da quei beati signori, ma in ancor meno tempo, evidentemente, dai signori di questa Olimpiade con i loro paralogismi funambolici.
A dare un tocco di impegno civile e di pacifismo, che specie di questi tempi non fa male, ma in realtà a mettere il carico da undici, è l’account ufficiale di Parigi 2024 (un consesso di genii): «L’interpretazione del dio greco Dioniso ci fa capire l’assurdità della violenza tra esseri umani». Dioniso ci fa capire l’assurdità della violenza? Ma quando mai? Leggere le Baccanti per credere. Nella tragedia di Euripide le seguaci del dio sono le donne tebane che, trascinate dall’ebbrezza, vestite di pelli ferine, tirso in pugno e accompagnandosi con flauti sistri timpani cembali, corrono per i monti danzando senza freni, allattando cuccioli di lupo e facendo sgorgare vino, latte e miele dalle rocce, in orgiastica comunione con la natura. Ma sono anche quelle che, in preda al parossismo dionisiaco, devastano ogni cosa sul loro cammino, saccheggiano, rapiscono i bambini e al culmine del sacro furore fanno a pezzi Penteo, il re di Tebe, con la madre Agave in prima fila a infierire.
Dioniso è un dio duplice (come del resto Apollo, la sua antitesi: ce lo ha spiegato Marcel Detienne nell’illuminante Apollon le couteau à la main, Gallimard, 1998) ma fondamentalmente è una potenza disordinante che scompagina gli assetti della città-stato, “libera” gli uomini dai vincoli della civiltà, annulla il senso del limite alla base della sensibilità ellenica, o almeno della sua parte emersa. Altro che «idee repubblicane, di benevolenza e di inclusione», come vaneggia Jolly (Joker?): il dio dell’ebbrezza include chi gli si abbandona, ma chi lo avversa in nome dell’ordine civico rischia la fine del povero Penteo (e infatti, storicamente, i culti orfici si sono configurati come una sorta di riforma del dionisismo, per renderlo compatibile con la realtà della polis).
Ma Jolly vuole stupire: «Dioniso che arriva a tavola, il dio della festa, del vino e padre di Sequana, la dea legata al fiume». Sequana figlia di Dioniso? Gli antichi greci non lo sospettavano, e neanche quelli d’oggi. Perché Sequana (nome latino della Senna) è sì una divinità fluviale, personificazione del fiume in cui oggi i nuotatori olimpici non vogliono saperne di gareggiare in quanto tuttora inquinato, a dispetto delle assicurazioni ufficiali; ma soprattutto è una divinità celtica con cui Dioniso non risulta aver avuto a che fare. A meno che il dio dell’ebbrezza non si fosse spinto segretamente fin dalle parti di Digione, epicentro del culto di Sequana nonché Capitale di quella Borgogna che è rinomata per la sua produzione vinicola: forse che da Parigi ci stiano proponendo una nuova variante del mito?