di Simona Siri (lastampa.it, 5 marzo 2018)
Tenere insieme il movimento #metoo e #timesup, mischiarlo con le proteste contro le armi, aggiungerci Harvey Weinstein, i ragazzi di Parkland, l’orgoglio nero di Black Panther, Porto Rico, Donald Trump, Mike Pence e i messicani. Sembrava un’impresa impossibile.
Eppure la cerimonia degli Oscar andata in scena domenica sera è riuscita in qualche modo a frullare tutto dentro. Certo, ci si è annoiati, ma il punto non è questo. Il punto è che le aspettative di questi Academy Awards giunti alla novantesima edizione erano molto alte: bisognava celebrare il cinema, consegnare i premi, ma anche tenere conto dell’attualità, essere politicamente corretti e inclusivi. Una sfida difficile. Già nei giorni precedenti, la domanda che circolava sulla stampa e tra gli addetti ai lavori era una sola: come e quanto gli Oscar parleranno di abusi sessuali e di donne e di uguaglianza tra i sessi da un palco scintillante, ma spesso giustamente frivolo? Intanto ci ha pensato il presentatore, Jimmy Kimmel. Nel suo monologo iniziale, di gusto e mai volgare, in modo da non offendere nessuno, ha cercato di far ridere usando i tweet di Trump, il vice Mike Pence notoriamente contro gli omosessuali («I film come Chiamami col tuo nome non sono fatti per fare soldi, ma per indispettire Mike Pence»), e soprattutto gli uomini, con due battute: «Grazie a Guillelmo Del Toro ricorderemo quest’anno come quello in cui gli uomini si sono comportati così male che le donne hanno incominciato a uscire con i pesci». L’altra, sulla statuetta Oscar: «È l’uomo perfetto: tiene le mani a posto, non dice parolacce, non ha neanche il pene: è il simbolo del tipo di uomo di cui abbiamo bisogno oggi». Anche il resto della cerimonia ha avuto i suoi (molti) momenti d’impegno. Ashley Judd, Annabella Sciorra e Salma Hayek, tutte e tre vittime di Weinstein, sono salite sul palco insieme, molto emozionate, per consegnare il discorsetto scolastico sul nuovo corso hollywoodiano. Il rapper Common durante la canzone Stand Up for Something – nella colonna sonora di Marshall, film sul primo giudice nero della Corte Suprema – ha tirato in ballo le armi, la NRA e i ragazzi scampati alla sparatoria in Florida prima di urlare il suo supporto ai Paesi africani, ad Haiti e Porto Rico. L’orgoglio messicano è stato vendicato dalla vittoria di Coco (anche nella categoria Miglior canzone, Remember Me, purtroppo a spese di Sufjan Stevens e quindi di Chiamami col tuo nome) e da conseguente discorso pro immigrazione. Lupita Nyong’o e Kumail Nunjiani si sono rivolti ai Dreamers, dicendo: «Siamo con voi». C’è stato un segmento tutto dedicato al sociale, con interventi di registi e registe afroamericane come Lee Daniels e Dee Rees (il suo Mudbound era candidato a quattro statuette) e con Kumail Nunjiani detentore di una delle frasi migliori della serata: «Sono cresciuto guardando film con protagonisti uomini bianchi. Ora uomini bianchi vedranno film con me e si identificheranno con qualcuno di diverso da loro: non è difficile, io l’ho fatto tutta la vita». Sul finale due sprazzi di emozione. Il discorso da immigrato di Guillermo Del Toro, premiato sia come Miglior regista che come Miglior film per La forma dell’acqua, è stato appassionato, finalmente privo di retorica. Quello di Frances McDormand, Migliore protagonista per Tre manifesti a Ebbing, Missouri, è stata una chiamata alle armi: «Chiedo a tutte le donne candidate stasera di alzarsi in piedi», ha urlato dal palco, incitando Meryl Streep a dare l’esempio. «Ecco, guardatele. Queste donne hanno storie da raccontare e hanno bisogno di essere finanziate». È stato forse il momento più bello e sincero per una serata piena di buone intenzioni, per carità, ma che forse ha fallito nell’unico compito che le era richiesto: far divertire.