di Igiaba Scego (esquire.com, 19 settembre 2020)
Molte mie amiche somale hanno a casa una foto di Lady Diana. È strano vederla lì in mezzo a foto di famiglia e versetti del Corano. Sembra apparentemente fuori posto con la sua chioma bionda e la pelle traslucida. Ma poi le mie amiche mi hanno sempre detto che lei è dove deve stare, «Non lo capisci che è una di famiglia?». Lady Diana non ha mai avuto legami con la Somalia o la comunità somala. Non ci è mai andata in viaggio ufficiale e non penso che ne abbia parlato in uno dei suoi discorsi. Ma nonostante l’assenza di legami, lei ha avuto sempre un ruolo nel cuore delle somale e dei somali.Era un affetto che nessuno sapeva spiegare a parole, ma che c’era. Ancora ricordo il giorno che hanno annunciato la sua morte. Ero a casa, a preparare un esame universitario per la sessione autunnale. Come tutti io e la mia famiglia avevamo seguito le vicende della sua estate, la storia con Dodi e tutti avevamo in mente quella sua ritrovata libertà. Era in forma e noi eravamo felici per lei. Quel giorno mi svegliò mio padre, che è mancato l’anno scorso, e ricordo che stava urlando disperato. «È morta, morta». Io non capivo chi era morto, come, dove. Mio padre ripeteva delle parole, Parigi, incidente, morta. Ci ho messo un po’ a capire, ero in dormiveglia. Ma quando capii fu uno shock e cominciai a balbettare. Sentivo, è stata una sensazione che poi ho avuto per pochi altri, di aver perso una sorella.
Per anni poi mi sono interrogata sul perché Diana piacesse molto a noi donne somale, nate o originarie di quel Corno D’Africa devastato da guerre, carestie e migrazioni molto dure. Che c’entrava lei con noi? Lei così aristocratica, così ricca, così bionda? In realtà c’entrava eccome. L’amavamo così tanto perché era una ribelle, una che alla fine voleva essere libera e senza imposizioni. Diana, lo sappiamo, ha sofferto moltissimo. Era una donna che era stata ingannata da un uomo che non l’amava, da una famiglia reale a cui importava soprattutto che lei fosse vergine e fertile, da una società che aveva bisogno della sua giovinezza per rigenerarsi. Ma non ha accettato questo passivamente, ha mostrato al mondo la sua grinta da vera ribelle.
Questa sua ribellione uscì fuori alla distanza, all’inizio di quello che la stampa chiamava “favola” era solo una ragazza timida. Quando il Principe Carlo la sposò, non solo lui era innamorato di un’altra ma anche la Gran Bretagna viveva un momento abbastanza tribolato della sua storia. Erano gli anni del neoliberismo sfrenato di Margaret Thatcher che aveva messo in ginocchio la parte fragile della nazione, gli anni del terrorismo dell’Ira, gli anni degli scioperi a oltranza, gli anni infelici di crisi economiche e ingiustizie sociali. Anni così ben raccontati da Jonathan Coe ne La famiglia Winshaw. Diana Spencer venne vista all’epoca come l’agnello sacrificale che avrebbe lavato i peccati del Regno. La volevano sottomessa, tradita, sola con la sua bulimia.
Ma lei voleva altro per sé. Voleva essere una madre presente nella vita dei suoi due figli William e Harry (e fu un’ottima madre), voleva una vita indipendente, una vita utile e come tutti gli esseri viventi voleva essere amata. Già l’esordio del suo matrimonio non era stato dei più entusiasmanti. Infatti, durante una conferenza stampa, fu chiesto al principe Carlo (e Diana era lì accanto) se fosse innamorato. Dopo qualche esitazione il principe rispose: «Sì… qualunque sia il significato della parola amore». Non iniziarono bene. Lei però era ancora la Diana che aveva in testa i romanzi rosa di Barbara Cartland (legata a lei anche da un rapporto di parentela, era la madre della sua matrigna), la Diana che come tante donne e uomini preferivano “abbozzare” a quelle piccole indelicatezze iniziali, pensando “poi lui cambierà”.
Aveva un sorriso raggiante al suo matrimonio. Ci credeva. Voleva che tutto funzionasse alla perfezione. E ci ha provato con tutta sé stessa. Ma come poi disse in quella sua famosa intervista del 1995 rilasciata al programma della Bbc Panorama, «il mio matrimonio era troppo affollato». Erano in tre: Carlo, lei e Camilla. All’inizio Diana, che lentamente cominciò a tirarsi fuori dai maglioni ingombranti e dalle gonne da collegiale, cercò di stare nei confini imposti dal matrimonio e dalla Casa Reale. Ma il suo sorriso, il suo gusto per gli stili eleganti, la naturale propensione verso il prossimo la fecero lentamente fiorire in bellezza e poi nel cuore della gente. Fare le cose giuste per Diana era naturale come respirare, non era ingessata e formale come la famiglia reale, lei era lei. E se doveva dare una mano a un malato di Aids la dava, non aveva le stupide paure che avevano le persone che allora discriminavano fortemente i malati di Aids.
Era una donna moderna, sapeva usare i media e voleva togliersi qualche sassolino dalle scarpe. Ma forse lei non ne era ancora del tutto consapevole, negli anni Ottanta. Il miracolo avvenne grazie a un parrucchiere nel 1990, fu lui a mostrarle la sua anima ribelle, con un taglio, un semplice taglio. Sam McKnight ha raccontato nel dettaglio com’era nato quel suo rapporto professionale con Diana. Diventare il suo hairstylist fu casuale. Lady D doveva fare un servizio per Vogue e McKnight usò tutto un sistema di forcine per dare un effetto corto, in modo che esaltasse la tiara e illuminasse il suo volto come non mai. Diana all’epoca portava un long bob voluminoso che aveva fatto furore tra le donne inglesi, ma vedersi con quei capelli così diversi la fece quasi sobbalzare sulla sedia e con coraggio chiese «e se le dessi carta bianca lei cosa farebbe?». McKnight rispose «taglierei» e lei candidamente rispose «facciamolo!».
Tagliarsi i capelli, modificarli, colorarli sono modi che gli uomini e le donne hanno di comunicare al mondo un cambiamento interiore che a volte nemmeno è consapevole. Io sono una donna nera e so quanto sia importante per le sorelle black che hanno allisciato i capelli per anni con la chimica tagliarsi tutto, fare un big chop e ricominciare da capo con un capello naturale. Riavere i propri capelli è di fatto una liberazione. E per Lady D è stato lo stesso. Ed è così che, passando dal long bob a un taglio più corto, androgino, un pixie via via più corto, si liberò. Ci fu anche quella famosa copertina dove il suo taglio fece un debutto in pieno stile. Aveva un dolcevita nero, il mento appoggiato sulle mani e un’aria sbarazzina che prometteva faville, prometteva ribellione. Quel taglio di capelli annunciava il terremoto che sarebbe arrivato due anni dopo e continuato fino alla sua morte. Lei che era stata destinata a essere agnello sacrificale di un’intera nazione e di una famiglia reale che non l’aveva davvero voluta, decise di dire addio a tutto e ricominciare a costruire una nuova Diana.
L’immagine che conservo di lei è quella del suo coraggio, un coraggio ribelle, mentre sorridente cammina in un campo minato. Diana ha una visiera, un giubbotto antiproiettile e tanta forza. Lì, in piedi, in mezzo a mine che uccidevano, l’ho sentita vicina al mio cuore. Ho avuto sempre la sensazione che Diana stesse lì anche per noi che abbiamo alle spalle Paesi che hanno attraversato l’inferno. Per questo, forse, piace a me e a tante come me. La sua vita è finita troppo presto, ma il suo coraggio e soprattutto la ribellione verso chi la voleva sottomessa credo resterà per sempre. Il coraggio di essere giusta e sempre alla ricerca della felicità.