Nell’estate del ’57 nasceva il gruppo dei Situazionisti. Profetizzarono un mondo invaso da Spettacolo e merce. Il nostro. Furono sconfitti dal riflusso. Ma non tutti
di Massimiliano Panarari («Il Venerdì», suppl. a «la Repubblica», 4 agosto 2017)
Tanti ne parlano, ma pochi li conoscono davvero a fondo. Di sicuro, un profondo esperto e studioso del complicato, affascinante e, a tratti, delirante universo dei situazionisti è Gianfranco Marelli, di cui arriva in libreria l’edizione rinnovata di un libro importante scritto negli anni Novanta: L’amara vittoria del situazionismo. Storia critica dell’Internationale Situationniste 1957-1972 (Mimesis edizioni). E che ci guida dentro il labirinto di questa “postdatata” avanguardia tardo novecentesca.«Fra le svariate definizioni che si sono date dell’Internazionale Situazionista (IS)», racconta Marelli, «la più convincente l’hanno espressa gli stessi situazionisti riconoscendosi come “un gruppo di teorici della rivoluzione”. Essa rispecchia pienamente l’aspetto soggettivo – l’essere un gruppo di teorici provenienti dai più svariati ambiti artistico-culturali europei della seconda metà del XX secolo – così come l’oggetto del loro stare insieme: la rivoluzione. Se c’è infatti un filo conduttore nella loro ricerca di “un’altra idea di felicità” (durata dal 1957 al ’72) coincide con l’urgenza di innescare un processo di trasformazione radicale della vita quotidiana, ormai colonizzata dallo spettacolo della merce che alienava i “proletari” non più soltanto nella produzione di beni, ma imponeva loro di consumarli, consumando il “tempo libero” che rimaneva loro per sopravvivere come merce in un mondo di merci. Per questo il loro presupposto fu la “costruzione di situazioni” in grado di realizzare l’arte di vivere adattando il mondo ai propri desideri, e non obbligando i nostri desideri (di libertà, felicità, indipendenza) a trasformarsi in bisogni da soddisfare mediante il consumo di beni». Ma qual è stata la novità portata dal situazionismo nella cultura del secondo Novecento? «Da un lato, la critica della vita quotidiana e della sua nuova morale perbenista è stato l’iniziale collante che ha tenuto unite esperienze artistico-culturali che, fin dal secondo dopoguerra, hanno lottato contro una ricostruzione del mondo in chiave funzionalista al servizio della merce e del suo spettacolo alienante, che iniziava allora a manifestarsi attraverso l’urbanizzazione forzata del territorio. Dall’altro, è emerso prepotentemente il bisogno di “ripensare la rivoluzione”, criticando aspramente il ruolo dei rivoluzionari di professione con la finalità di mettere in chiaro quanto le cosiddette “sconfitte del proletariato” (come la Comune di Parigi, la rivoluzione spartachista, la breve estate anarchica nella Spagna del ’36) fossero invece state le uniche vittorie di chi aveva autonomamente saputo fare a meno dei padroni dell’Ideologia rivoluzionaria, del Partito, dello Stato. I due aspetti hanno condotto i situazionisti a ritrovarsi nei gesti radicali di un proletariato giovanile che si opponeva spontaneamente tanto alla rassegnazione di chi accettava “l’ideologia del consumo” come esempio del benessere diffuso ottenuto grazie allo sviluppo economico capitalista, sia alla dabbenaggine di chi voleva rovesciare il sistema capitalistico occidentale grazie al “consumo di ideologia” di matrice terzomondista che invocava la triade dei numi tutelari della rivoluzione Mao/Castro/Ho Chi Minh». Il titolo del libro rimanda a un’idea di “vittoria amara”, cosa che presuppone delle inversioni di significato dell’eredità del situazionismo. «Il situazionismo», continua Marelli, «è stato “recuperato” all’interno di un sistema economico-produttivo che aveva necessità di una nuova avanguardia artistica che rappresentasse concettualmente il cambiamento in atto di un sistema non più sul punto di collassare, ma pronto al superamento delle proprie forme di dominio e sfruttamento arcaiche. Un po’ come è avvenuto per il surrealismo, il cui successo commerciale ha comportato il riassorbimento nel processo culturale e artistico, svuotandolo dei contenuti politici e rivoluzionari. Di pari passo, anche il successo del situazionismo fu considerato un fallimento, al punto che gli stessi situazionisti se ne dissociarono, negando di essere loro stessi “situazionisti” come a suo tempo Marx negò di essere “marxista”. Sappiamo che servì a poco, e per questo la vittoria del situazionismo fu amara, soprattutto per quei situazionisti che come Guy Debord si ritenevano gli “strateghi della rivoluzione immanente” e si ritrovarono perciò naufraghi». Anche l’Italia di questi decenni ha visto un ritorno di fiamma del post-situazionismo, e vari protagonisti della cultura e dello spettacolo si sono richiamati a esso (da Carlo Freccero a Enrico Ghezzi, fino ad Antonio Ricci). «Il situazionismo è diventato una merce, consumata prima in ambiti ristretti e radical chic, al punto da venire considerato una chiave d’accesso esoterica per pochi iniziati, per lo più millantatori di un trascorso situazionista (ed è il caso dei sopranominati); in seguito, è stato assorbito da tutta l’ideologia modernista in modo da potersi rappresentare come la critica più avanzata e à la page in materia di arte, urbanismo, politica, media, così da consolidare un atteggiamento di “spettacolo del rifiuto” distante anni luce da quel “rifiuto dello spettacolo” che l’Internazionale Situazionista si era data come obiettivo». E dal punto di vista delle storie personali, che fine hanno fatto, dopo il suicidio del leader Debord, gli altri «puri, duri, inossidabili» (come li si definisce nel libro) e, si può aggiungere, litigiosissimi componenti del movimento? «Alcuni – da sempre i più compromessi con il sistema – si sono prontamente riciclati in artisti di fama mondiale, consulenti e strateghi di società multinazionali, arrivando addirittura ad intraprendere la carriera militare fino al grado di generale. Altri, invece, hanno saputo mantenere la barra dritta e, una volta dissoltasi l’IS, hanno continuato ad alimentare la speranza di un cambiamento radicale sempre più circoscritto alle problematiche ecologiche e ambientaliste. I restanti hanno continuato a scimmiottare un comportamento litigioso, arrogante, da chi ha capito tutto. Tranne che l’IS, come scrisse Debord, ha saputo “fare” il suo tempo, e ora non c’è più bisogno di “fare” i situazionisti. Per evitare la noia».